25 dicembre 1914, prima
guerra mondiale. Siamo sul fronte occidentale. Inglesi e tedeschi sono divisi
solo da qualche centinaio di metri, possono quasi vedersi, e possono sentirsi. Da
una trincea, ad un certo punto, si alza un canto di Natale. Dalla parte opposta
rispondono altri soldati. Incredibilmente uno, due soldati avanzano nella terra
di nessuno, tra la costernazione e i richiami dei compagni. Potrebbero venire
trucidati dall’esercito avversario: sono lì, pienamente visibili, bersagli
facilissimi. Eppure nessuno spara. Anzi, dalla trincea opposta si avvicina un
altro gruppetto. I soldati nemici si incontrano, si scambiano gli auguri di
Natale. Sempre più persone affluiscono da una trincea e dall’altra: qualcuno
porta vino, qualcun altro porta pane. L’atmosfera è rilassata a tal punto che
qualcuno ha raccattato da qualche parte un pallone: due montagnette di neve
formano la porta, e si comincia a giocare a calcio.
Questo episodio è
conosciuto come la tregua di Natale, uno degli avvenimenti più toccanti e
commoventi del primo conflitto mondiale. È qui che si rinverdisce una antica
tradizione: due belligeranti sospendono di comune accordo le ostilità affinché
ognuno possa seppellire i propri defunti e dar loro degna sepoltura. Due eserciti
nemici fanno tacere le armi per far si che il nemico possa piangere il proprio
camerata morto, e accompagnare quest’ultimo nel suo ultimo viaggio. Il rispetto
per la morte e per il dolore dell’altro fu presente anche lì, tra le trincee
della prima guerra mondiale.
Ho pensato a questo
episodio quando ho visto la prima di copertina de Il Manifesto di due giorni
fa: “E così Fiat”. Una formula dal latino, presa giocando sul verbo “fiat”, che
pressappoco significa “E così sia”, oppure “Sia fatto così”. A corredo del
titolo una foto di Sergio Marchionne col capo chino, le spalle basse: debole. Miserabili
sciacalli che si avventano contro una preda ormai facile, l’amministratore di
Fiat Chrysler Automobiles che combatte per la vita in una clinica svizzera. Nemmeno
un po’ di commozione, nemmeno il silenzio e la dignità che merita una persona
morente, o quantomeno il rispetto che si deve ai suoi collaboratori e ai suoi
familiari. Niente di niente: solo volgare sciacallaggio. Andare sulle pagine
della sinistra parlamentare ed extraparlamentare non aiuta: una valanga di
odio, di rabbia e di fiele, pronunciata quasi sempre e solo da dichiarati
rappresentanti di una ben precisa parte politica che, oggi come ottanta anni
fa, non sa che cosa sia la pietas.
Si, Sergio Marchionne ha
delocalizzato la FIAT, ha spostato gli stabilimenti all’estero dopo aver
ricevuto più di otto miliardi dallo Stato Italiano per non cessare la
produzione, paga le tasse fuori dall’Italia per usufruire di una tassazione più
vantaggiosa rispetto a quella presente nel Belpaese (e chi non lo farebbe?), è
il fautore di centinaia di migliaia di licenziamenti. Ha incarnato, insomma, il
capitalismo più puro. Ma nel suo mestiere è stato brillante. Forse spietato, ma
brillante. Ma se lo è stato ai danni dell’Italia la colpa non è sua, che ha
giocato con regole condivise: la colpa, semmai, è di questo Stato che con la
FIAT e con gli Agnelli, come con tanti altri, ha sacrificato il benessere dei
suoi cittadini sull’altare del mercato.
Sergio Marchionne non ci è
mai stato simpatico, è vero. Però accanirsi su un uomo morente è cosa che
lasciamo ben volentieri a questa sinistra rancorosa, livorosa e disumana.
Il nemico si combatte
quando è in forze, al tuo stesso livello o anche più forte di te, non quando è
impossibilitato a difendersi. Se lo spari alle spalle, oppure quando è
disarmato, ciò non fa di te un combattente o un guerriero: sei solo un codardo,
un vigliacco. In altre parole: un partigiano. Forse anche peggio: un impaginatore
de Il Manifesto.
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