lunedì 23 luglio 2018

Il Manifesto, Sergio Marchionne e quella pietas che la sinistra non ha mai avuto


25 dicembre 1914, prima guerra mondiale. Siamo sul fronte occidentale. Inglesi e tedeschi sono divisi solo da qualche centinaio di metri, possono quasi vedersi, e possono sentirsi. Da una trincea, ad un certo punto, si alza un canto di Natale. Dalla parte opposta rispondono altri soldati. Incredibilmente uno, due soldati avanzano nella terra di nessuno, tra la costernazione e i richiami dei compagni. Potrebbero venire trucidati dall’esercito avversario: sono lì, pienamente visibili, bersagli facilissimi. Eppure nessuno spara. Anzi, dalla trincea opposta si avvicina un altro gruppetto. I soldati nemici si incontrano, si scambiano gli auguri di Natale. Sempre più persone affluiscono da una trincea e dall’altra: qualcuno porta vino, qualcun altro porta pane. L’atmosfera è rilassata a tal punto che qualcuno ha raccattato da qualche parte un pallone: due montagnette di neve formano la porta, e si comincia a giocare a calcio. 

Questo episodio è conosciuto come la tregua di Natale, uno degli avvenimenti più toccanti e commoventi del primo conflitto mondiale. È qui che si rinverdisce una antica tradizione: due belligeranti sospendono di comune accordo le ostilità affinché ognuno possa seppellire i propri defunti e dar loro degna sepoltura. Due eserciti nemici fanno tacere le armi per far si che il nemico possa piangere il proprio camerata morto, e accompagnare quest’ultimo nel suo ultimo viaggio. Il rispetto per la morte e per il dolore dell’altro fu presente anche lì, tra le trincee della prima guerra mondiale.

Ho pensato a questo episodio quando ho visto la prima di copertina de Il Manifesto di due giorni fa: “E così Fiat”. Una formula dal latino, presa giocando sul verbo “fiat”, che pressappoco significa “E così sia”, oppure “Sia fatto così”. A corredo del titolo una foto di Sergio Marchionne col capo chino, le spalle basse: debole. Miserabili sciacalli che si avventano contro una preda ormai facile, l’amministratore di Fiat Chrysler Automobiles che combatte per la vita in una clinica svizzera. Nemmeno un po’ di commozione, nemmeno il silenzio e la dignità che merita una persona morente, o quantomeno il rispetto che si deve ai suoi collaboratori e ai suoi familiari. Niente di niente: solo volgare sciacallaggio. Andare sulle pagine della sinistra parlamentare ed extraparlamentare non aiuta: una valanga di odio, di rabbia e di fiele, pronunciata quasi sempre e solo da dichiarati rappresentanti di una ben precisa parte politica che, oggi come ottanta anni fa, non sa che cosa sia la pietas.


 
Si, Sergio Marchionne ha delocalizzato la FIAT, ha spostato gli stabilimenti all’estero dopo aver ricevuto più di otto miliardi dallo Stato Italiano per non cessare la produzione, paga le tasse fuori dall’Italia per usufruire di una tassazione più vantaggiosa rispetto a quella presente nel Belpaese (e chi non lo farebbe?), è il fautore di centinaia di migliaia di licenziamenti. Ha incarnato, insomma, il capitalismo più puro. Ma nel suo mestiere è stato brillante. Forse spietato, ma brillante. Ma se lo è stato ai danni dell’Italia la colpa non è sua, che ha giocato con regole condivise: la colpa, semmai, è di questo Stato che con la FIAT e con gli Agnelli, come con tanti altri, ha sacrificato il benessere dei suoi cittadini sull’altare del mercato. 

Sergio Marchionne non ci è mai stato simpatico, è vero. Però accanirsi su un uomo morente è cosa che lasciamo ben volentieri a questa sinistra rancorosa, livorosa e disumana.


Il nemico si combatte quando è in forze, al tuo stesso livello o anche più forte di te, non quando è impossibilitato a difendersi. Se lo spari alle spalle, oppure quando è disarmato, ciò non fa di te un combattente o un guerriero: sei solo un codardo, un vigliacco. In altre parole: un partigiano. Forse anche peggio: un impaginatore de Il Manifesto.

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