lunedì 4 novembre 2013

Onore agli eroi greci, disprezzo per i gazzettieri



Dovrebbe esistere un limite, un segnale di stop, un momento di silenzio nella vita di qualunque uomo, fosse anche il più combattivo, determinato e polemico tra gli uomini. È il momento in cui, davanti alla morte, si tace e si rimane in silenzio, lontano dalle declamazioni di parte e dai rancori della politica, della religione o dell’ideologia. Si commemorano i morti, o si riflette quantomeno su di essi, e, soprattutto, si permette all’altra parte, all’avversario, fosse anche il proprio peggior nemico, di piangere i suoi. È lo stesso Omero, nella sua Iliade, che ci racconta come, anche nelle battaglie più sanguinose e cruente, vi fossero delle pause prestabilite tra i due eserciti: davanti alla morte perfino l’avversario più acerrimo deponeva la spada e rimaneva in silenzio, ad onorare le lacrime del nemico che piangeva il camerata che combatteva fino a poco prima al suo fianco. Addirittura era stabilito un campo neutro, tra i due schieramenti nemici, dove ciascuno consegnava vicendevolmente all’altro i corpi dei morti che aveva fatto prigionieri, affinché potesse esser data a quegli stessi corpi una degna sepoltura.

Il dolore della morte è ciò che di più personale, di più intimo e di più sacro possa esserci all’interno di una comunità: rispettarlo ed onorarlo fa parte dell’antropologia e della spiritualità dell’uomo, dagli albori del mondo fino ad oggi. 

In queste ultime settimane abbiamo potuto sperimentare, sulla nostra stessa pelle, come i nostri avversari politici concepiscano le nostre, di morti: con un disprezzo ed un odio così acuto e pungente da diventare disumano e finanche crudele. Li abbiamo visti all’opera, i nostri nemici politici, gli antifascisti di professione, i democratici a comando, i sostenitori dei diritti umani imposti a suon di bombe e decreti legge, riempire di calci e di sputi la bara di un soldato che aveva avuto, nella sua vita, un unico torto: essersi comportato da soldato e da uomo prima e dopo la guerra; li abbiamo visti nascondere la tomba per evitare che qualcuno tra noi potesse piangere quella morte. Nascondere il corpo di un morto a chi vuole piangerlo, dopo che ci si è incarogniti contro di lui in vita e dopo la vita, è qualcosa che non si riscontra nemmeno nelle civiltà aborigene, che sono pur conosciute per la macabra abitudine di divorare il cuore dei nemici uccisi.

Ci siamo rassegnati a non avere nemmeno una tomba su cui pregare Erich Priebke e, dopo essere stati bene attenti a non guardare i servizi televisivi di quelle bastarde carogne che troppo gentilmente si suole definire come “giornalisti”, al fine di evitare di farci il fegato amaro e di aggiungere la rabbia al dolore, ci siamo abituati all’idea di piangerlo da soli, dentro di noi, il nostro morto. Il nemico è barbaro, è disumano, mostra una crudeltà che, in tutta franchezza, ci stupisce e talvolta ci spiazza e ammutolisce, perché ci rafforza nella nostra convinzione che la battaglia che portiamo avanti è, se possibile, ancora più sacra: non combattiamo contro uomini, bensì contro mostri senz’anima.

Quanto alla gioia degli antifascisti per la morte di un bastardo nazista, siamo vaccinati alle indecenti esultanze di chi si rallegra della morte altrui: della disumanità di questa gente ce ne siamo fatti ampiamente una ragione. Quindi pensavamo, dopo la scomparsa del Capitano, di aver assistito al peggio del peggio. Incredibile ma vero, ci siamo sbagliati. Non siamo mai sufficientemente smaliziati contro questi immondi esseri, che per comodità definiremo gli “antifascisti”, con i quali abbiamo a che fare.


La morte di Manolis Kapellonis e Yorgos Fundulis, i due militanti di Alba Dorata che sono stati uccisi a sangue freddo in una pubblica strada di Atene da un commando di terroristi dei quali non si conosce ancora bene l’identità, ha, se possibile, risvegliato quegli ulteriori appetiti cannibali che pensavamo fossero stati già sfogati con la morte di Priebke. Abbiamo dovuto leggere, su Facebook come altrove, le solite squallide esultanze. “Due Fascisti in meno!”, “Speriamo che li ammazzino tutti”, “Tanto erano solo due razzisti di merda”, e via dicendo. Quello che non avremmo mai pensato è che anche i media, nei confronti dei quali, come si sa, non nutriamo alcuna particolare fiducia, avrebbero ripreso pari pari gli stessi atteggiamenti. Ieri, nello speciale andato in onda su Canala 5 relativo al movimento greco, si è parlato della morte di due ragazzi di vent’anni come qualcosa di ineluttabile, come un terremoto o un alluvione: «Morti due militanti neonazisti». E invece, giova ricordarlo, quei due militanti non sono morti in un alluvione o a causa di un terremoto: sono stati crivellati di proiettili da un commando di terroristi mentre uscivano dalla sede di un movimento politico perfettamente legale e regolarmente candidato alle elezioni. Senza che, nelle ore successive, un solo politico o giornalista greco esprimesse solidarietà alle famiglie, agli amici, e chiedesse a gran voce giustizia. Anzi: è stato blindato il luogo dell’esecuzione fino ad un chilometro di distanza per rendere ancora più difficoltoso, a chiunque l’avesse desiderato, avvicinarsi a rendere omaggio alle salme che erano lì, stese sul selciato, ancora immerse nel sangue caldo.
Oggi la Gazzetta dello Sport trovava il tempo di dedicare un articolo allo striscione che i tifosi della Lazio hanno voluto dedicare ai ragazzi greci durante l’incontro Lazio – Genoa. Lo striscione, come potete vedere in foto, recita: “Il tramonto è rosso, l’Alba Dorata. Manolis e Yorgos presenti”. Questo striscione ha la sua bella etichetta: i pennivendoli, quando l’ordine arriva direttamente dalla loggia, sanno affibbiarle bene, le etichette. “Striscione filonazista”: ecco come lo hanno definito quelli della Gazzetta. A noi viene da pensare: che cosa c’è di filonazista nel voler commemorare la morte di due ragazzi che sono morti massacrati a colpi di mitragliatrice automatica solo perché combattevano dalla parte sbagliata? C’è forse qualche swastika? Qualche riferimento ad Adolf Hitler? Qualche simbolo Nazionalsocialista o un più o meno palese riferimento al Nazionalsocialismo o al Fascismo? Niente affatto. Ma per questi disgustosi e disgraziati pennivendoli lo striscione è filonazista: basta questo a spegnere, nel lettore italiano medio, notoriamente ignorante e cretino per definizione, qualunque sentimento di pietà per due vite stroncate così, solo perché appartenevano ad un movimento di destra. Pietà l’è morta, quando si tratta di Fascisti.
Ma non finisce qui. Poteva mancare, sempre nello stesso articolo, l’intervento di Riccardo Pacifici, il presidentissimo delle Comunità Ebraiche Italiane che, come suo solito, non perde occasione per tacere? «Ogni pretesto, anche la barbara uccisione di due giovani, diventa – in determinate frange del tifo italiano – un pretesto per inneggiare e fare apologia di movimenti che hanno nel proprio dna il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia. Il razzismo negli stadi è un fenomeno inammissibile e come tale deve essere trattato. Per questo auspichiamo un pronto intervento e severi accorgimenti da parte delle autorità competenti.»
Ringraziamo Riccardo Pacifici per aver definito il massacro di due ragazzi di destra una “barbara uccisione”: si è già portato una spanna avanti rispetto a quei giornalisti che gli tengono il bordone ogni qualvolta ha voglia di sparare qualche cazzata, come in questo caso. Ma ci viene da chiedere al buon Riccardo Pacifici, e a coloro che la pensano come lui: cosa c’entra il razzismo, la xenofobia, il razzismo e l’esaltazione di movimenti violenti il commemorare la morte di due militanti politici? Lo striscione l’abbiamo visto: a meno che non si sia ossessionati da qualche malattia mentale non si legge niente di più di quello che vi è scritto.
Ma è già troppo tempo che il presidentissimo, con la consueta tracotanza che lo ha reso famoso, va in giro a dare patenti di democrazia e di legittimità a chi gli pare e piace e a chiedere l’arresto immediato per tutti coloro che non la pensano come lui.
Signor Riccardo Pacifici, nel caso legga questo scritto, colgo l’occasione per scriverle delle cose che i suoi sgherri, nelle logge e nelle sinagoghe in cui è sempre ben accetto, difficilmente avranno il coraggio di dirle. In questo Paese, se ne faccia una ragione, c’è ancora chi non si arrende e chi rivendica fieramente il proprio diritto a pensarla diversamente da lei e da quelli come lei. In questo Paese c’è chi pensa che sia sbagliato massacrare i Palestinesi per impossessarsi della loro terra. In questo Paese c’è chi pensa che sia sbagliato incarcerare gli storici o anche i semplici cittadini che hanno idee politiche o storiche diverse dalle sue. In questo Paese ci sono due cose che si chiamano Magistratura e Polizia: a questi due organismi, e a nessun altro, spetta il compito di decidere se un movimento o partito politico è legale o no e se possa o meno presentarsi al giudizio dei cittadini e degli elettori. In questo Paese c’è ancora chi rivendica il diritto di onorare e piangere i propri morti, anche se sono dei cattivi Fascisti. O forse dobbiamo chiederle il permesso per esporre uno striscione allo stadio o commemorare due ragazzi massacrati a colpi di arma da fuoco da quella stessa stampa asservita e complice che ha ben contribuito a fomentare un clima di odio e di tensione contro Alba Dorata e i suoi militanti, clima di odio e di intimidazione che lei, del resto, signor Pacifici, dovrebbe conoscere bene? E quali dovrebbero essere i severi accorgimenti da parte delle autorità competenti che lei auspica? Dovrebbero andare ad arrestare a casa loro i ragazzi della Lazio che hanno esposto quello striscione? E con quale accusa dovrebbero venire arrestati e processati? Con l’accusa di aver esposto uno striscione che commemora Manolis Kapellonis e Yorgos Fundulis? Dovremmo forse richiedere il timbro dell’UCEI per aprire un movimento politico o per esporre uno striscione allo stadio?
Questo vi si doveva, per rendere, almeno in minima parte, giustizia delle vostre stronzate e del vostro odio. E adesso continuate pure nel vostro rabbioso e bavoso delirio: noi abbiamo due camerati da piangere. E non sarete voi a darci il permesso di farlo. Fatevene una ragione.