martedì 26 maggio 2020

Luca Palamara: spuntano le intercettazioni con Zingaretti e Minniti



La famosa indipendenza ed apoliticità della Magistratura Italiana? Emerge ancora una volta dal fuoco di paglia divampato dalle chat Whatsapp del cellulare personale di Luca Palamara, ex Presidente del CSM, che sta investendo la Magistratura e che, siamo certi, provocherà solo qualche vampata di calore ai soliti noti, per poi tornare tutto come prima.

Dopo aver confidato a Luca Auriemma, ex Capo della procura di Treviso, che Matteo Salvini aveva ragione da vendere ma che andava comunque attaccato per Partito (Democratico) preso, Palamara contatta il neo-Presidente del PD, Luca Zingaretti, dopo la recente vittoria alle regionali del 2018. “Se perdo, avrò molto tempo libero”, scherza Zingaretti. “Noi ti vogliamo molto occupato”, gli risponde un solerte Palamara.

Non solo il capo del PD, ma anche i gregari. Palamara ha buoni contatti con Marco Minniti, il predecessore di Matteo Salvini (definito “una merda”, senza molti fronzoli, da Palamara stesso) al Ministero dell’Interno. Di cosa discutono i due nel 2017? Ma è ovvio: di nomine, di poltrone, di spartizione del potere, con quel linguaggio vagamente mafioso e spocchioso che abbiamo capito essere un vero e proprio modus operandi del personaggio. Si deve trovare un posto adeguato a Federico Cafiero de Raho, magistrato che milita dalla parte giusta, e che viene ricompensato niente popò di meno che con la prestigiosa poltrona di Procuratore Nazionale Antimafia. 

Insomma: Palamara appare essere tante cose, fuorché una persona consapevole del suo ruolo e diligente nel suo lavoro. 

Di più: tra le intercettazioni emergono anche le sue telefonate alla dirigenza della Roma per un posto gratis all’Olimpico. Volete che l’allora Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, che brigava di poltrone, stipendi, soldi, favori, inchieste pilotate per abbattere gli avversari politici della sinistra, avesse duecento euro da “lanciare” per una tribuna d’Onore allo stadio?

Una domanda sovviene a chi scrive: cosa sarebbe accaduto se si fosse scoperto che un importante esponente di centrodestra - magari Matteo Salvini - intratteneva rapporti con le più alte cariche della Magistratura per pilotare le inchieste giudiziarie ai danni della sinistra, decidere incarichi e nomine, avere i biglietti gratis allo stadio, il tutto riconoscendo platealmente la capziosità e faziosità della sua azione ed insultando coloromessi arbitariamente sotto inchiesta dalla Magistratura stessa?

lunedì 25 maggio 2020

Palamara, il CSM e gli altri: sempre più corrotti, sempre più mafiosi




Le intercettazioni delle conversazioni telefoniche tra Luca Palamara – ex Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura – sotto processo per corruzione, ed alcuni magistrati aprono un vero e proprio vaso di Pandora sulla Magistratura Italiana e ci confermano quello che avevamo capito da tempo: che l’inchiesta contro Matteo Salvini per il fermo della nave Gregoretti altro non è che una inchiesta politica, grazie alla quale la sinistra, oramai perdente su tutto il territorio nazionale, cerca di mettere a tacere gli avversari politici. E lo fa, come sua consuetudine da almeno vent’anni, tramite il suo braccio armato più spietato e più efficiente: la Magistratura.

“Salvini va attaccato anche se ha ragione, perché è una merda”. Ecco, scovate dal giornale La Verità, cosa diceva Palamara dell’ex Ministro dell’Interno, in una chat privata con Luca Auriemma, ex Capo della Procura di Viterbo, che, dal canto suo, rispondeva così: “Mi dispiace, ma non vedo veramente dove Salvini stia sbagliando. Illegittimamente si cerca di entrare in Italia e il Ministro interviene affinché questo non avvenga.” “Hai ragione – gli risponde Palamara - ma adesso bisogna attaccarlo”. Auriemma, però, non si scompone: “[Salvini viene] indagato per non aver permesso l’ingresso in Italia a soggetti invasori. Dai, siamo indifendibili. Indifendibili”. Se lo dicono loro...

Infatti, in quei giorni in cui Matteo Salvini era sotto attacco della Magistratura, bisognava essere in malafede oppure degli imbecilli (ancora meglio: entrambe le cose) per non vedere che la questione era quasi solo ed esclusivamente politica: non a caso l’unico a volere l’ex Ministro dell’Interno alla sbarra era il Partito Democratico, e le frange più estremiste di una sinistra ormai minoritaria in Italia. 

A sinistra, ovviamente, si ficca la testa sotto la sabbia. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi: la malafede di questi indegni personaggi, che da decenni complottano per disintegrare la Nazione economicamente, socialmente, etnicamente (con “iniezioni” forzate di centinaia di migliaia di “invasori”, come li ha definiti lo stesso Auriemma), se prima era palese ora è scritta nero su bianco. Lì, tra le conversazioni non di due imbecilli qualunque, ma di Palamara ed Auriemma, coloro che, all’epoca, erano rispettivamente il Presidente del CSM e il Capo della Procura di Viterbo.

Pezzi grossi della Magistratura, grossissimi, che concordavano sulla necessità di attaccare politicamente Salvini e di metterlo a tacere con l’unica arma rimasta ad una sinistra oramai minoritaria, morente ed impopolare: le toghe rosse, sempre pronte ad abbattere gli avversari politici a botte di inchieste giudiziarie, da Bettino Craxi in poi.

Che la sinistra ed il suo braccio armato, la Magistratura, cerchino di disintegrare l’avversario politico tramite inchieste pilotate, purtroppo, non ci stupisce: è da Tangentopoli in poi che assistiamo a questo teatrino. Quello che davvero scandalizza, almeno agli occhi di chi scrive, è che questi lugubri figuri siano addirittura peggio di come ce li siamo sempre immaginati: nient’altro che una accozzaglia di corrotti, che al telefono parlano e scrivono tra loro con un linguaggio tipicamente mafioso, con l’unico scopo di spartirsi denaro, potere, e di mettere a tacere colui che, ieri come oggi, è l’avversario politico numero uno, colpevole solo di essere popolare nei sondaggi e di aver fermato il mercato di carne umana gentilmente apparecchiato dalla sinistra ad ONG e scafisti.

Questi sono quelli che ci giudicano, sempre e rigorosamente “In nome del popolo Italiano”. Aveva ragione da vendere Giulio Andreotti: questo motto campeggia nelle aule di tutti i tribunali italiani, rigorosamente alle spalle dei giudici, che così non lo possono vedere. 

Salvini scrive a Mattarella, capo della Magistratura, chiedendogli imparzialità nel processo che lo vedrà imputato per sequestro di persona e in cui rischia fino a 15 anni di carcere. Atto politicamente dovuto, quello del capo della Lega, ma assolutamente inutile. Mattarella emetterà forse qualche borbottio, ma non oserà disturbare il can che dorme: troppo pericolose e troppo utili le toghe, per pensare di rivoltare il CSM come un calzino. 

Molto probabilmente si cambieranno i vertici, augurandosi che i prossimi criminali non siano così coglioni da farsi intercettare sulle chat Whatsapp. 

Aspettiamo il processo a Salvini. Una sua eventuale (e probabile) condanna sarebbe un chiaro atto di guerra, una brutale dimostrazione di potenza col quale cercheranno di intimorire gli avversari politici e di consolidare il proprio potere; una sua assoluzione, invece, sarebbe il semplice tentativo di cercare di riaccreditarsi presso l’opinione pubblica come una istituzione super-partes, che agisce nell’esclusivo interesse del cittadino e dello Stato, per poter dire: “Vedete? Comunque la Magistratura è obiettiva ed integerrima! Salvini è stato assolto!” Dopo un processo farsa, che non sarebbe dovuto nemmeno cominciare, aggiungiamo noi.

martedì 5 maggio 2020

La censura sovietica di Facebook


Che cosa sarebbe accaduto se nell’era dell’Unione Sovietica – con le purghe di Stalin, i piani quinquennali che sterminavano intere popolazioni, i gulag in cui venivano deportati gli avversari politici – fosse esistito internet? È presto detto: Facebook sarebbe nato almeno cinquant’anni prima.

Quello che il sottoscritto, e come me tanti altri camerati colpevoli solo di pensare fuori dal coro, abbiamo passato può essere paragonato solo con un “1984” in salsa moderna, in cui il Grande Fratello del capolavoro di George Orwell viene ben rappresentato da Facebook.

Ve lo racconto.

Partiamo da un presupposto: nonostante gli strali del Nostro Segretario Nazionale, Carlo Gariglio, uso abbastanza regolarmente Facebook (lo usa perfino lui, però, quindi può incazzarsi, ma fino ad un certo punto). Ultimamente lo utilizzavo per non più di 2/3 interventi al giorno, quelli che nel gergo comune anglofilo si chiamano “post”. Termine che potrebbe essere ben sostituito da parole italiane come “intervento”, “tema”, “pensiero”, ma noi siamo un popolo di coglioni e quindi diciamo che “ho postato una cosa su Facebook”. Utilizzare regolarmente Facebook significa, per me, avere una bacheca in cui compaiono tante notizie, tutte di diverso tenore, anche provenienti da diversi indirizzi politici, comunque  tutti interessanti, e poter cazzeggiare su qualche gruppo dedicato ai nostalgici della commedia all’italiana (chi lo sente adesso Gariglio?): non più di qualche frasetta al giorno, qualche gruppo musicale di mio gradimento, qualche messaggio privato scambiato con qualcuno. Né più né meno, insomma, di come viene utilizzato da miliardi di persone in tutto il mondo. Ho smesso di cercare di svegliare gli italiani per cambiare il mondo: ho scoperto che vedere quanto sono deficienti è forse anche più divertente, e più in là di Sanremo e del McDonald non vanno.

Ebbene: quando lo uso poco Facebook si incazza e mi censura. Non so perché, ma funziona così: meno scrivo e più ciò che scrivo è sotto la costante attenzione del genio dal naso adunco e dei suoi accoliti.

Bastava una frase di Benito Mussolini, un articolo del mio blog, un commento troppo sarcastico per un utente, che subito partiva la censura: “Il tuo post non rispetta gli standard della Community”, e blocco per 30 giorni. Mai uno, due, tre giorni: sempre e solo trenta. Pena massima, senza appello.

Prima, però, il social network del genio dal naso adunco aveva almeno la creanza di informarti su cosa veniva censurato: addirittura – troppa grazia! – potevi richiedere pure un secondo controllo, ché magari vi siete sbagliati! Addirittura, non è leggenda, una volta un mio commento sarcastico nei confronti di un elettore di sinistra è stato dapprima censurato, poi ri-approvato. Lo dico senza vergogna: mi sono quasi commosso da un simile trattamento.

Ultimamente, invece, nei miei confronti Facebook attuava una vera e propria campagna di pressione psicologica h24, un po’ come quelle del regime sovietico contro i borghesi: magari eri un pezzentone che non riusciva ad arrivare alla fine del mese (anche perché, grazie ai geniali piani quinquennali del regime, non era proprio semplicissimo) però bastava che chiunque, anche l’ultimo dei capibastone, ti appellasse “borghese” – appartenente, cioè, a quella classe padrona che aveva impoverito e sfruttato l’Unione Sovietica, secondo la “loro” propaganda, che la tua esistenza era segnata. 

Allo stesso modo a me, di tanto in tanto, negli ultimi tempi arrivavano messaggi di censura ai miei interventi, ma senza dirmi di cosa si trattasse: non un collegamento da premere, non una spiegazione, non la citazione della frase incriminata. Nulla di nulla. Quindi utilizzavo il sito creato dal genio dal naso adunco con questi pensieri: gli darà fastidio questa riflessione che percula Di Maio? Gli piacerà questo video degli Slipknot? E questo video di cani che abbaiano adirati contro i gatti di casa che sonnacchiano sulle loro cucce come sarà interpretato? Penseranno ad una qualche velata allusione a Giuseppe Conte quando va in Europa?

Poi, di colpo, la censura colpisce più forte. Fin qui niente di male. Però ti prende pure per il culo. Questo, effettivamente, è un po’ fastidioso.

Cosa è accaduto? È presto detto. Qualche giorno fa, mentre mi reco a lavoro, entro sul sito del genio dal naso adunco e mi viene comunicato che qualcosa che ho fatto, scritto, detto, pensato, non è piaciuta al genio in questione o a qualcuno dei suoi solerti collaboratori. Non mi viene detto di cosa si tratti, calco su “Avanti” o qualcosa di simile, comunicando al sito che si, ho capito di aver fatto incazzare qualcuno degli sgherri di regime in questione, anche se non c’è modo di capire il perché. Arrivo ad una finestrella: “Confirm your account”. Facebook mi dice che vuole accertarsi che sia davvero io ad utilizzare Facebook e non Sergio Mattarella sotto mentite spoglie. Vabbè, facciamolo contento. Per fare questo vuole che carichi sul sito un mio documento di identità: la patente di guida, la carta di identità, qualcosa che Facebook conserverà sui suoi sistemi per non meno di 30 giorni e non più di 365. Mi chiedo con quale diritto un sito internet pensi di esibire un documento per sapere cosa faccio, dove vivo, dove abito: chi gli ha dato tanto potere? Nemmeno si trattasse di una piattaforma Rousseau gestita da Bonafede! Poi, però, fedele al motto del “Male non fare, paura non avere” dico a me stesso che se Facebook vuole avere queste informazioni va bene, gliele darò, fosse anche solo per vedere dove vuole andare a parare. Tanto, come dice il sito stesso, posso sempre eliminare i documenti se cambio idea. O no? 


Clicco su “Scatta foto”, preparo la mia carta di identità sul tavolo, faccio la foto, la invio. Di nuovo la stessa identica schermata: “Confirm your account”. Non avrà funzionato qualcosa, penso. Eseguo nuovamente la procedura: scatto la foto, Facebook approva, di nuovo la stessa identica schermata di partenza. Appare sempre quel “Confirm your account”, come se non avessi compiuto nessuna azione. Va bene, penso, non vuole la carta di identità, forse vuole la patente. Preparo la patente sul tavolo, clicco su “Scatta la foto”, di nuovo la stessa identica schermata. Forse è una procedura che va a buon fine solo se eseguita da un pc e non da un telefono cellulare, penso. Entro su Facebook, carico il documento, invio. Niente. Stessa identica schermata delle venti volte precedenti. Sembra che la mia utenza si sia bloccata qui.

Aspetto. La procedura è stata eseguita diverse volte, qualcuna di questa sarà sicuramente andata a buon fine. Gli amici del genio dal naso adunco capiranno che sono io e sbloccheranno la mia utenza quanto prima. Sono o non sono democratici, loro? Aspetto due giorni. Nulla. Stessa identica schermata. Ripeto le procedure. Nulla. Stessa identica schermata. Mi sento come l’insegnante delle elementari di Paola Taverna: sfiduciato. Poi, per curiosità, calco su quel collegamento in blu, quello che vedete in foto, precisamente “disattivi questa opzione”: lì scopro che Facebook ha immagazzinato nei suoi sistemi tutte le foto che gli ho inviato, all’incirca una quindicina. Quindi tutte le procedure che ho eseguito sono andate a buon fine, tecnicamente erano giuste, ma il sito internet del genio dai capelli crespi ha continuato imperterrito a presentarmi lo stesso identico messaggio, nell’intento chiarissimo di prendermi per il culo.

La conferma mi arriva da Carlo, che mi chiede se si mi sia eliminato da Facebook. Gli spiego la disavventura. Mi dice testualmente: è una presa per il culo, è un modo carino per bloccarti senza dirti che ti hanno bloccato, tanto che mia moglie ha sul suo profilo la tua stessa identica schermata – l’oramai famoso “Confirm your account” – da diverse settimane, senza che nulla sia successo. Non potevamo sentirci tre giorni prima, ché mi sarei evitato di provare la stessa procedura più e più volte, vincitore come la Fedeli davanti ai congiuntivi?

Qualcuno dirà che Facebook è un sito privato e come tale può applicare le regole che vuole. Vero, ma fino ad un certo punto, vista la rilevanza che il social network ha sia a livello mediatico che a livello politico (come la causa legale persa contro CasaPound – arbitrariamente censurata da Facebook – dimostra ampiamente). Ad ogni modo è significativo che a difendere a spada tratta le censure arbitrarie e politicamente corrette di Facebook siano coloro che – a parole – si battono per la democrazia, la libertà di parola ed altri ammennicoli simili, ma in questo caso chiudono volentieri un occhio solo ed esclusivamente perché la censura colpisce la parte politica avversa, quella che in settanta anni di leggi speciali e disposizioni transitorie della Costituzione (ma transitorie fino a quando? Sono passati – appunto – settant’anni!) non sono ancora riusciti a mettere a tacere.
 
Cosa farò? Probabilmente, non rinuncerò al sottile piacere di creare un po’ di lavoro per il genio dai capelli crespi: è una questione di principio. Creerò una nuova utenza di posta elettronica, registrerò un nuovo profilo, ed aggiungerò tutte le utenze perdute. Di nuovo. 

Volete la censura da sgherri di regime quali siete? Guadagnatevela.