lunedì 30 aprile 2012

Il comizio di Lassandro a Santeramo

Di seguito il comizio del valoroso dirigente pugliese, Giuseppe Lassandro, per le elezioni di Santeramo. Buona visione.

domenica 29 aprile 2012

Sergio, non ti abbiamo dimenticato

Ricevo dal forum MFL e pubblico sul mio blog in ricordo del camerata Sergio Ramelli, vigliaccamente ucciso dagli assassini comunisti.

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Voglio raccontarvi, tramite le parole di Luca Telese, la storia di un ragazzo come tanti, come me appassionato di calcio e di politica. E’ la storia di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte ucciso a colpi di chiave inglese nel 1975 da esponenti di Avanguardia Operaia . 

“Sono i primi giorni di gennaio, è il 1975.
All’istituto tecnico Molinari, in V° J il professore di lettere assegna ai ragazzi, tra gli altri, un tema di attualità.
Sergio Ramelli, che frequenta da due mesi la sede del Fronte della gioventù, non ha dubbi: parla delle Brigate rosse. Scrive che il primo delitto dei brigatisti è stato compiuto contro due missini, scrive che le Br sono un pericolo per la democrazia, scrive che Mazzola e Giralucci, purtroppo, sono ricordati come delle vittime solo dai loro compagni di partito, che i brigatisti non sono un pugno di romantici rivoluzionari, ma un’organizzazione manovrata.
Ha le idee chiare, non c’è dubbio. Forse, osserverà il professore, è rimasto impressionato da un editoriale di Giorgio Pisanò apparso sul Candido e ne riecheggia le tesi, chissà: il testo originale di questo tema, ovviamente, oggi non esiste più. Ma il suo contenuto se lo ricordano bene tutti, i professori e i compagni di classe di Sergio. Perché succede che il ragazzo incaricato di raccogliere i temi venga bloccato in corridoio da alcuni compagni di scuola, che fanno parte del collettivo politico più forte dell’istituto, quello di Avanguardia operaia. E che poi i ragazzi del collettivo si mettano a spulciare gli elaborati uno per uno, per capire cosa hanno scritto i loro compagni su un argomento così delicato. Nessuno saprà mai che voto avrebbe preso per quel compito Sergio, il professore non lo correggerà mai.
Poche ore dopo, infatti, nella bacheca dell’atrio due fogli protocollo fanno bella mostra di sé, affissi con le puntine. Sopra c’è una scritta rossa: ECCO IL TEMA DI UN FASCISTA. Il testo è costellato di sottolineature. Per quanto nessuno ancora possa nemmeno immaginarlo, quel tema, e la sua «correzione», sono l’inizio di una drammatica catena che, anello dopo anello, si chiuderà con la morte di Sergio.
C’è qualcosa, nella figura di Sergio come è stata ricostruita negli atti e nei ricordi di chi lo ha conosciuto, che colpisce ancora oggi. Non si tratta di cedere all’eterna tentazione di costruire agiografie retroattive, non è la solita attitudine alla santificazione del martire. Ma è come se Sergio, in qualche modo, fosse riuscito a restare refrattario al furore ideologico del suo tempo. È un fan sfegatato solo quando si tratta di Adriano Celentano (una «vera mania», assicura la madre). È un grandissimo appassionato di sport, soprattutto di calcio, gioca a pallone a livello semiprofessionistico. È tifoso dell’Inter ma raramente va allo stadio, non è interessato al tifo. Dice la signora Anita: In tutte queste cose, nella musica, nello sport, come nella politica non era un fanatico. Si interessava, gli piacevano, si entusiasmava, ci metteva il cuore, ma non l’ho mai visto urlare o irritarsi.
Così, ripercorrendo i suoi ultimi giorni, si trova anche qualcosa di stoico, in lui, nel modo in cui si avvicina alla fine. In quella lunga cronaca di una morte annunciata che sarà il suo omicidio, malgrado il moltiplicarsi dei segnali e delle minacce, incredibilmente Sergio non si lamenterà mai né chiederà soccorso ai camerati, che sicuramente, se avessero saputo, avrebbero fatto qualcosa per proteggerlo.
Fino all’ultimo terrà all’oscuro anche la sua famiglia, negherà l’innegabile, mentirà per nascondere la progressione delle aggressioni di cui viene fatto oggetto. Risulta dai verbali degli interrogatori che persino nei giorni in cui a scuola lo insultano e lo prendono a calci, lui continua a non raccontare niente ai genitori. Quando proprio non può, e la madre lo riempie di domande, scuote la testa e le fa: «Non preoccuparti mamma, non è nulla».
La giornata più drammatica, nel corso della lunga persecuzione che prepara il delitto, è quella del 3 febbraio 1975. Dopo molte discussioni, papà e mamma Ramelli hanno deciso di imporre al figlio di abbandonare il Molinari. A malincuore Sergio è costretto ad accettare, e quella mattina entra a scuola accompagnato dal padre per sbrigare le necessarie pratiche burocratiche. Purtroppo li stanno aspettando: nel corridoio della scuola padre e figlio sono aggrediti, picchiati e costretti a passare fra due file di studenti per un violento rituale di sottomissione.
Sembra la scena di un film di Kubrick, sembra un’arancia meccanica in salsa meneghina, e ancora una volta bisogna lasciare la parola a Grigo e Salvini per sapere come si conclude questa terrificante passeggiata:
Il ragazzo era stato colpito ed era svenuto, mentre lo stesso preside e i professori che avevano scortato il Ramelli e il padre verso l’uscita erano stati malmenati.
Ancora più sconcertante la testimonianza del professor Melitton, secondo cui la preside aggredì il padre e gli disse:
«Ma non vede che lei e suo figlio siete un motivo di turbamento per la scuola?».
Marzo 1975. Roberto Grassi, ex studente del Molinari, ed esponente di spicco di spicco del servizio d’ordine di Avanguardia operaia, durante una riunione di cellula si rivolge a Marco Costa, universitario, numero due del servizio d’ordine di Medicina a Città Studi. Grassi è uno dei pochi tra i dirigenti del gruppo che conosca personalmente Ramelli. Ed è lui che preannuncia a Costa una decisione da tempo nell’aria: dovrà essere la sua squadra (proprio perché non è in alcun modo collegabile al giovane missino) ad aggredire il ragazzo. Sarà un battesimo d’azione, la prima sprangatura del gruppo. Sarà il primo delitto politico degli anni Settanta commesso per interposta persona, il primo delitto, a sinistra, realizzato «su commissione».
La comunicazione «ufficiale», invece, in un’organizzazione leninisticamente centralizzata e gerarchica, arriverà da un altro dirigente, Giovanni Di Domenico detto «Gioele». Infatti, Di Domenico avvicina Walter Cavallari e gli dice:
«Dovete andare a menare un fascio». Cavallari non se la sente.
Pochi giorni prima gli è stato chiesto di sprangare uno studente di Agraria, ma non è andata come pensava. Lo aggredisce, ma subito dopo ha paura, scappa: «Doveva essere un militante di acciaio temprato, e invece no, mi ero trovato davanti solo un uomo». Viene esautorato. Per uno che ha un dubbio ce ne sono dieci che non ne hanno.
Il suo posto lo prende Costa. L’azione si deve fare lo stesso. Dopo trent’anni Anita Ramelli abita ancora nella stessa casa di via Amedeo, con la finestra affacciata sul luogo dove avvenne l’aggressione a Sergio. Per ostinazione, per abitudine, per senso della memoria, non se ne è voluta andare.
Per anni su quel pezzo di muro si sono combattute grandi battaglie simboliche: prima i manifesti con le minacce, poi la guerra dei fiori e delle scritte, e addirittura una battaglia per i sacchi di immondizia che un portiere del condominio di fronte si ostinava a depositare proprio lì davanti, malgrado i cassonetti a pochi passi più in giù. Un giorno, gli amici di Sergio gli spiegarono che o sceglieva un altro posto per depositarli, o si sarebbe ritrovato i rifiuti in guardiola: cosa che puntualmente accadde, dopo l’ennesima sfida.
Non è facile dimenticare, nemmeno per un quartiere, soprattutto per chi non capisce che si possa continuare a combattere una guerra anche su qualche metro di marciapiede e di intonaco. Oggi, mani ignote, ma per chi sa individuabili, hanno dipinto su quella parete un grande murale, con una scritta e una croce celtica: SERGIO VIVE. È il modo che la comunità di cui Sergio faceva parte ha scelto per non dimenticare.
Ancora oggi, ogni tanto, mamma Ramelli si affaccia alla finestra di casa sua. Guarda il muro, e la scritta. E non dice nulla.

mercoledì 25 aprile 2012

Lutto nazionale

Non festeggiamo la sconfitta militare, trasformata dai soliti criminali in "liberazione".
Non festeggiamo la perduta sovranità dell'Italia in favore di puttane, ebrei e massoni.
Non festeggiamo le migliaia e migliaia di italiani uccisi e trucidati da banditi che si credevano soldati.
Non festeggiamo i criminali che spacciano per una loro guerra l'invasione della Patria da parte degli anglo-americani, fatta per farci diventare quello che siamo: una colonia.

Onore ai nostri ragazzi che non si arresero, che andarono volontariamente a crepare per dimostrare che l'Italia non era fatta solo di partigiani e massoni. E - permettetecelo - un po' di Onore anche a noi, che non ci arrendiamo ancora.

martedì 17 aprile 2012

Ausiliaria Giovanna Deiana: presente!

E’ deceduta la Presidente Nazionale dell’Associazione Culturale S.A.F. Ausiliaria del Corso FIAMMA Giovanna Deiana. Cieca di Guerra, decorata di Medaglia d’Argento al Valor Civile, nonostante la sua grave menomazione fisica richiese direttamente al Duce l’autorizzazione a partecipare al Corso Ausiliarie, autorizzazione concessa con il plauso e l’elegio del Capo della RSI. Durante il servizio nei Centri di ascolto contraerea e anche nel lungo dopoguerra, le pupille spente di Giovanna sono state la luce di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerla e di apprezzarla per le sue elevate doti morali. Il suo amore per l’Italia e la sua fede fascista sono state una costante di tutta la sua esistenza. Per tutta la Comunità dei Combattenti della RSI la sua dipartita rappresenta una dolorosissima perdita.

AUSILIARIA GIOVANNA DEIANA: PRESENTE !

mercoledì 11 aprile 2012

Don Mazzi ma vai a fanc.....!

Diciamo la verità: fino ad un certo punto Don Mazzi era anche sopportabile. Certamente, spesso e volentieri modaiolo, ben appollaiato nei salotti del dolore che non esitano a fare i processi giudiziari davanti alle telecamere e a mostrare mammine piagnucolose, sempre ben stravaccato nelle poltrone che contano, quelle da prima serata che garantiscono il record di ascolti. Sempre presente, sempre pronto a dispensare le sue perle di saggezza, che potrebbero anche essere sopportabili, visto il servizio sociale che l’uomo ha ricoperto per anni, salvando molti giovani dall’alcol, dalla violenza e dalla strada. Sempre ben appollaiato con i nomi importanti della politica e della cultura italiana radical-chic.

Ci sono cose che si risolvono solo con un vaffanculo. L’ultima uscita di Don Mazzi è una tra queste. E tanti saluti al prete. Ché non ti viene nemmeno voglia di rispondergli, di argomentare qualcosa che non sia un sonoro vaffanculo. Perché cos’altro potresti mai dire ad uno che pubblicamente (dalle prime pagine dello squallidissimo pezzo di carta straccia denominato “Chi?” – il nostro don non si fa mancare proprio nulla di nulla: se c’è un microfono o una telecamera è tutto grasso che cola, per lui!) dichiara: “Basta soldi per salvare cani! Noi salviamo vite umane... Mando avanti quaranta strutture in tutta Italia e sei nel mondo. Quest’anno i bilanci piangono. Abbiamo debiti per 2 milioni di euro, perché i servizi pubblici, che dovrebbero aiutarci, non ci pagano dal 2004. Dicono che non ci sono soldi. Si va avanti grazie ai finanziamenti dei privati. Mi verrebbe voglia di mollare tutto, ma la fede mi dà forza per continuare”. Don Mazzi batte cassa, insomma, e spara la solita stronzata enorme del “Non spendiamo soldi per gli animali ma per gli uomini” che manda fuori di testa chiunque sia dotato di un minimo di intelligenza e sensibilità, e continua ad illudersi, come noi, che il cuore umano sia così grande e così capace da poter accogliere tutti i tipi di amore, incluso quello per gli animali, il quale spesso e volentieri ripaga molto più di quello per gli uomini, provare per credere.

Del resto non è che ci si possa aspettare grande amore animalista da un cattolico: sappiamo bene che le tre religioni principali, ebraismo, cristianesimo e islam – tranne qualche lodevole eccezione come San Francesco d’Assisi – hanno massacrato milioni di animali fin dalla loro nascita, e continuano tuttora. Del resto non fu proprio Gesù che, per festeggiare nell’ultima cena, mandò a sgozzare l’agnellino nel tempio-mattatoio?

Nessuno impone a Don Mazzi di spendere i suoi soldi e il suo tempo nei confronti degli animali. Ma se nessuno si permette di dire a lui quello che deve fare, dovrebbe smetterla di dare lezioni a tutti gli altri con quell’aria da saccente. Esiste anche una legge italiana – ma forse il Don Mazzi tra una apparizione da Mara Venier e una da Giletti deve essersene dimenticato – che impone di soccorrere gli animali feriti o in difficoltà. Se proprio il prete radical-chic deve fare i conti in tasca a qualcuno perché non li fa ai politici italiani? Oppure ai suoi superiori, che non hanno certo da invidiare il conto in banca di nessuno?

Continueremo a spendere le nostre energie e i nostri soldi come meglio crediamo, e continueremo a pensare che sia mille volte meglio salvare un cane con la leishmaniosi che cercare di redimere un assassino, un delinquente o un farabutto.

Apprezziamo Don Mazzi per quello che fa e per quello che ha fatto. Ma la smetta di dirci come ci dobbiamo comportare con le nostre energie e con i nostri soldi. Comincia a diventare ridicolo, oltre che fastidioso.

venerdì 6 aprile 2012

Quale è il limite?

Se qualcuno nutriva dei dubbi riguardo alla vera natura delle Nazioni Unite e della Corte Penale Internazionale come strumento di controllo e di repressione della innominabile lobby, sarà costretto definitivamente a ricredersi. Questo ci auguriamo, perlomeno.

La Corte Penale Internazionale ha infatti stabilito espressamente che “non indagherà sui crimini commessi da Israele nell’offensiva contro Gaza (operazione “Piombo Fuso” del 2008/2009) perché” – udite udite! – la Palestina non è uno Stato o, quantomeno, non è riconosciuta come Stato da gran parte dei membri ONU.

Il Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman ha dichiarato espressamente: “Non molti sanno quanto lavoro è stato profuso a questo scopo. Il Ministro degli Esteri israeliano ha lavorato alacramente e silenziosamente a questo scopo”.

Non facciamo alcuna fatica a credere a Lieberman. Sappiamo bene che un ufficio del Ministero Israeliano è presente in ogni luogo di potere che conti di tutta l’Europa. E sappiamo bene cosa significa per i sionisti lavorare alacremente e silenziosamente: mettere in moto quella lobby innominabile e potentissima, che ha ramificazioni in ogni ministero, in ogni sottosegretariato, in ogni loggia, in ogni sinagoga, in ogni ufficio stampa, il cui potere è ben superiore a quanto comunemente si creda.

A causa di questo potere le 1400 vittime dell’operazione Piombo Fuso, in gran parte bambini, non troveranno alcuna giustizia.

La domanda è: quale è la linea di confine? Quale è il limite che uno Stato-pirata come Israele deve superare perché si possa finalmente urlare un forte e deciso “Adesso basta!”? Israele è l’unico Stato del mondo che nel 2012, sotto gli occhi del mondo, porta avanti una deliberata politica di sterminio e di contenimento di crescita della popolazione palestinese, questo sterminio, questo si!, storicamente dimostrato e dimostrabile! È l’unico Stato che gode di un apparato di potere, come scrivevamo prima, che non ha praticamente eguali in tutto il mondo, essendo infiltrato come un cancro, come un pericolosissimo tumore che non conosce cura, in ogni organismo di potere o di controllo. È l’unico Stato che mai e poi mai verrà chiamato a rendere conto dei propri crimini e che disattende arrogantemente decine e decine di risoluzioni ONU il quale, sempre in mano all’innominabile lobby, si guarda bene dal far rispettare.

Che cosa state aspettando a dire “Basta!”? Tra qualche decina di anni, noi speriamo molto prima, quando i vostri figli o i vostri nipoti vi verranno a chiedere dove eravate mentre sotto i vostri occhi si compiva l’olocausto, non potrete dire di non sapere. Nel 2012 non è più una scusa accettabile. Se sapete e tacete, allora siete complici.

mercoledì 4 aprile 2012

Bentivegna: se esiste una giustizia divina, povero te

Con tanta, ma tanta, ma tanta calma se n’è andato Rosario Bentivegna. I lettori di questo blog, e chiunque abbia un minimo di conoscenza di questioni italiche, saprà molto bene di chi stiamo parlando.

Il Bentivegna è l’autore materiale dell’attentato di via Rasella, compiuto contro un reparto di SS incaricate – in base a precisi accordi tra Fascisti, Nazionalsocialisti e banditi partigiani – esclusivamente di compiti di sorveglianza e di controllo del territorio, non partecipante direttamente ad alcuna azione di guerra. È grazie al Bentivegna che il maledetto ordigno esplode lasciando sul posto decine di camerati tedeschi, due passanti ed un bambino - Pietro Zuccheretti - che resta sull’asfalto tagliato in due.

Per questo meritorio gesto il Bentivegna e i suoi (in)degni compari passeranno tutta la vita a negare l’evidenza: cioè che il comando tedesco diede 48 ore di tempo agli esecutori materiali dell’attentato perché potessero costituirsi, onde evitare una rappresaglia pienamente consentita dalle leggi di guerra vigenti. Ma i coraggiosissimi partigiani, dandosi alla macchia, scateneranno la giusta ira tedesca, che porterà alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine.

Ecco… Bentivegna passa tutta la sua vita a negare questi fatti lampanti, supportati da una buona parte del mondo politico e del sempre sottomesso mondo della carta stampata. Del resto non sono solo le testimonianze storiche a dimostrare l’evidenza, che solo gli idioti o i comunisti mettono in discussione. Vi è anche la prassi e la logica. La rappresaglia di guerra, infatti, era una “normale” pratica che veniva utilizzata dalla forza militare preponderante su un determinato territorio per meglio controllare la zona di guerra. La logica ci dice che soltanto degli imbecilli avrebbero potuto mettere in atto una rappresaglia senza prima richiedere espressamente che si costituissero i responsabili. Una rappresaglia, per quanto sia comunque una azione legittima che era garantita dalle leggi vigenti, aveva una fortissima rilevanza politica e sociale. Una rappresaglia sconsiderata avrebbe potuto causare una fortissima ostilità da parte della popolazione nei confronti dell’esercito occupante: molto meglio sarebbe stato garantire alla giustizia i veri responsabili, per legittimare la propria presenza militare agli occhi della popolazione e dare un preciso messaggio politico: non facciamo vittime, se non ve ne è bisogno. Solo degli idioti quindi avrebbero attuato una rappresaglia senza prima cercare di catturare Bentivegna e soci. E, lo sappiamo bene, i nazisti erano tutto fuorché degli idioti.

Bentivegna, scrivevamo, ha passato tutta la sua esistenza a negare l’evidenza. In questo è stato ben supportato non solo da una parte politica, la sinistra e i comunisti, sempre comprensivi contro gli assassini e i delinquenti, non solo da una stampa asservita e schierata, ma anche dalla magistratura. Diverso tempo fa i giudici sancivano che i partigiani di via Rasella non potevano definirsi massacratori, assassini, banditi e simili… A noi piace pensare che adesso Rosario Bentivegna è dove la giustizia dei comunisti e dei banditi partigiani non può nulla. In questo posto fantastico colui che non possiamo in alcun modo definire massacratore, assassino, criminale, bandito e stragista, per non incorrere nella repressione di questo Stato nato dal disonore, dal tradimento e dalla vigliaccheria, può venir chiamato davvero con gli appellativi che meglio si addicono a “uomini” del suo calibro, magari da quello stesso bambino, Pietro Zuccheretti, falciato dalla non-vigliacca, non-assassina, non-criminale bomba dei GAP.

Ci piace pensare che lì, in quel posto fantastico, le sentenze dei comunisti e dei loro sgherri servono a poco. Ti chiameranno come meriti, Bentivegna. E se esiste una giustizia divina… povero te.