martedì 18 ottobre 2016

In memoria di un infame



No, non siamo quelli che dei morti ne parlano sempre bene. Perché, nella nostra schiettezza, pensiamo che se sei stato un essere ripugnante da vivo sarai tale anche da morto.
Alla morte di Dario Fo non siamo stati tra coloro che hanno cercato qualche like su Facebook ricordando il “maestro”, né tra coloro che hanno guardato la diretta Rai – con tanto di “Bella ciao” e pugni chiusi – pagata da noi tutti, anche coloro che il pugno chiuso non lo fanno e che “Bella ciao” non l’hanno mai cantata.
Partiamo dall’inizio. La vigliaccheria e l’infamia caratterizzano i comportamenti di questo personaggio fin dalla sua giovinezza. Fascista, dapprima fu volontario nella Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, poi volontario nel Battaglione Azzurro di Tradate, impegnato spesso in azioni di rastrellamento antipartigiane. Nell’intervista a La Repubblica del 1978 sentenziò: «[Entrai nella RSI] per ragioni molto più pratiche: cercare di imboscarmi, di portare a casa la pelle (...). Io e tanti miei amici chiamati alla leva, per evitare il fronte le pensavamo tutte. E per evitare di essere deportato in Germania la scappatoia fu quella di arruolarmi nell'artiglieria contraerea di Varese. Una contraerea mancante dei pezzi fondamentali, i cannoni. Una situazione ideale per noi, che contavamo di tornarcene tranquillamente a casa. In permesso perenne. Invece era una trappola. Appena arruolati ci caricarono sui treni merci, ci fecero indossare divise tedesche e ci affidarono all'esercito del Reich, per farci addestrare sul serio. In realtà ci usarono come bassa manovalanza (...) A un certo punto capimmo che ci avrebbero trasportati in Germania a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe. E allora altra fuga. L'unico scampo era arruolarsi nella scuola dei paracadutisti di Tradate, a due passi da casa mia. (...) Finito l'addestramento, fuga finale. Tornai nelle mie valli, cercai di unirmi ai partigiani, ma non era rimasto nessuno". In pratica una ripugnante via di mezzo tra il traditore e l’imboscato, ma pronto, ovviamente, ad entrare a far parte della guerriglia partigiana a guerriglia oramai finita, da buon vigliacco. 


È una storiella, questa, che fu lo stesso Fo a cercare di far dimenticare, citando in tribunale perfino il giornale Il Nord, che lo aveva definito un rastrellature di partigiani. Ovviamente perse: per il giudice fu “legittima non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”, pertanto “moralmente responsabile” delle azioni compiute dal suo Battaglione.
Basterebbe già questo per rendere questo personaggio un individuo moralmente abbietto, vile e nauseabondo, sia ad una parte politica – che ammette di aver tradito e boicottato spudoratamente – sia all’altra. Ma poiché la sinistra è sempre ben ghiotta di personaggi abbietti e nauseabondi – sennò non sarebbe la sinistra che tutti ben conosciamo – Fo si è trovato a sguazzare in quell’ambiente marcio come un porco in mezzo al fango.
Ma è solo l’inizio di un lungo curriculum vitae condito dalla militanza politica, feroce e spietata contro gli avversari politici, sempre a sostegno dei teppisti e dei criminali di sinistra, come vedremo, sempre carica di disprezzo e di odio per la controparte.
Potremmo parlare, ad esempio, della campagna di odio – portava nei teatri di tutta Italia con la benevola complicità di istituzioni, giornalisti e magistratura –  che Dario Fo, e la sua (in)degna moglie Franca Rame, fecero contro il Commissario Calabresi, che indagava sulla strage di piazza Fontana. Si scoprirà in seguito che gli autori dell’attentato che lo uccise erano quattro: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, tutti esponenti di Lotta Continua, movimento politico di estrema sinistra che godeva di ben più di qualche semplice simpatia nei collettivi universitari, nelle scuole, nelle redazioni dei giornali e, soprattutto, nei partiti politici di sinistra e di estrema sinistra.
Potremmo ricordare quel suo “Tanto è morto solo un lurido Fascista”, rivolto a Sergio Ramelli, che ben dimostra, casomai ce ne fosse ancora bisogno, la sua bassezza prima di tutto umana. Chi era Sergio? È presto detto. Sergio sarebbe potuto essere chiunque di noi, negli anni Settanta. Dopo due anni di quello che oggi sarebbe definito con un termine assai leggero come “bullismo”, condito di processi sommari nell’androne del liceo, scritte intimidatorie sotto casa, pestaggi, insulti, sputi, Sergio ebbe il solo torto di scrivere un tema contro le Brigate Rosse, che oggi siamo abituati (almeno coloro tra noi che non hanno ancora portato il proprio cervello all’ammasso) a vedere come il gruppo terroristico che erano, ma che all’epoca godevano di una speciale considerazione negli ambienti della scuola, dell’università, del giornalismo e anche delle istituzioni. Una sorta di gruppo di eroi, forse poco ortodossi, ma pronti a lottare contro i nemici del popolo e della democrazia (quella solo ed esclusivamente di chi la pensava come loro, ovviamente) per la vittoria del socialismo reale. Ebbene, fu un semplice tema scolastico la condanna a morte di Sergio. Che questo ragazzino di diciotto anni non si fosse piegato alle minacce, alle intimidazioni, ai pestaggi sommari in dieci contro uno, ai processi farsa fatti davanti ai propri compagni di classe, e si fosse addirittura permesso di scrivere un tema in cui condannava le Brigate Rosse e le coperture più o meno esplicite di cui queste godevano, apparve a coloro di Avanguardia Operaia, altro gruppo di terroristi di sinistra, un crimine intollerabile. Così alcuni esponenti della “Brigata coniglio”, soprannominati così dai loro stessi compagni per la leggendaria vigliaccheria che li caratterizzava nell’affrontare i “fasci” sempre e comunque in schiacciante superiorità numerica, aspettano Sergio sotto casa, lo braccano, lo inseguono, e lo massacrano di botte utilizzando la famigerata Hazet 36, chiave inglese trasformatasi in moderna spada con la quale i moderni eroi comunisti mettono a tacere gli avversari politici.
Ebbene, Sergio non è ancora clinicamente morto (morirà diversi giorni dopo) che, alla notizia dell’aggressione, dai banchi della sinistra del Comune di Milano, saputa la notizia, si alzano cori di festa e un lunghissimo applauso di gioia al sapere che un ragazzino di destra, pericoloso e temibile fascista, è stato ritrovato massacrato, con la testa fracassata a colpi di chiave inglese e la materia cerebrale che cola sul marciapiede. Basterebbe questo, solo e semplicemente questo, per dimostrare l’odio disumano di cui una buona parte della sinistra si è nutrita, e continua a nutrirsi. A suggellare questo carnevale dell’infamia arriva poi lui, il Fo, che sentenzia la fine di Sergio così: “Tanto è morto solo un Fascista”. Questo fu il Premio Nobel… ne seguì una violenta campagna di stampa (ci volle tutto l’impegno della dirigenza del MSI per impedire che, da parte dei camerati, cominciasse una stagione di vendetta sommaria).
Ma non basta. Dario Fo, e sua moglie Franca Rame, non hanno ancora toccato il punto più basso delle loro misere esistenze di esseri umani, prima ancora che di guitti d’avanspettacolo ammanicati con il potere.
L’abiezione più lurida, la loro più vergognosa degradazione della loro dimensione umana, la dimostrano pienamente con il rogo di Primavalle. È così che viene ricordato l’attentato di terroristi di sinistra in cui perdono la vita Virgilio e Stefano, rispettivamente di otto e ventidue anni, figli del dirigente missino Mario Mattei. 


Gli autori del rogo sono ben noti: sono esponenti di Potere Operaio, altro gruppo eversivo e terrorista dell’estrema sinistra. Li conoscono i giornalisti, li conoscono i poliziotti, li conosce la famiglia Mattei, che prima di allora aveva ricevuto intimidazioni e minacce, li conoscono i parlamentari di sinistra. Giorgio Almirante è costretto a correre a perdifiato nella notte per placare gli animi, per impedire che i suoi camerati, costantemente vittime di intimidazioni, minacce, aggressioni in pieno stile gappista, dopo aver visto un bambino di otto anni e un ragazzo di ventidue morire bruciati vivi, si facciano giustizia da se, nella maniera più sommaria e violenta possibile. Ci vuole uno stomaco di ferro, una capacità di autocontrollo straordinaria,  per non armarsi di tutto punto e andare, con le lacrime agli occhi, a farla sacrosantamente pagare a chi ha il coraggio di compiere, nei confronti della propria comunità, atti così infamanti. Invece i ragazzi del MSI stringono i denti, serrano i pugni, schiumano di rabbia, ma dimostrano una compattezza incredibile.
Gli autori della strage li conoscono tutti. Talmente sono noti, i nomi degli assassini, che solo due giorni dopo la Magistratura spicca tre mandati di arresto per gli assassini: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Solo il primo, Lollo, viene catturato: gli altri due riescono a scappare in Svizzera.
Poiché gli assassini di innocenti alla sinistra sono sempre piaciuti, immediatamente parte una campagna di stampa palesemente faziosa, mirante a far scagionare Lollo e gli altri terroristi, facendo apparire la tragedia di Primavalle come un banale regolamenti di conti tra gruppi interni dell’estrema destra romana. 


In prima fila, a difendere l’indifendibile, troviamo Il Messaggero, uno dei più importanti quotidiani romani, di proprietà della famiglia Perrone, la cui figlia, Diana Perrone, era una accesa militante di Potere Operaio. Sarà Achille Lollo, nel 2003, una volta rientrato in Italia grazie alla prescrizione ed alla latitanza, a includerla tra coloro che pianificarono ed attuarono la strage.
Quattro giorni dopo Il Manifesto titola di una “montatura fallita”.
Il 17 aprile, al liceo Castelnuovo di Roma, un volantino congiunto di studenti e professori sentenzia che “l’antifascismo non è mai stato terrorismo (sic!). Solo una mente fascista poteva pensare di appiccare il fuoco ad un appartamento di un lotto proletario, in una casa in cui dormono dei bambini”.
L’anno dopo è la volta del libretto “Primavalle: incendio a porte chiuse”, dove si paventa la possibilità di uno scontro interno alle diverse componenti del MSI e di una pericolosa montatura architettata da Fascisti e magistratura per fregare i compagni. A scrivere la prefazione a questo opuscolo è addirittura un giudice, Marrone, tra i fondatori di Magistratura Democratica, corrente politica dei magistrati, ovviamente, di estrema sinistra.
E poi non può mancare l’ebreo Pincherle, in arte Alberto Moravia, il senatore comunista Umberto Terracini, l’estremista di sinistra Riccardo Lombardi, e tanti altri, noti e meno noti.
Tutti colpevoli, tutti corresponsabili nel creare quel clima di “Tanto è morto solo un Fascista” tanto caro a Dario Fo: se muoiono i Fascisti è cosa buona e giusta; se con i fascisti muoiono anche i loro fratellini di otto anni (e dar del Fascista ad un bambino di otto anni è evidentemente troppo, anche per i compagni) allora non sono stati gli antifascisti ma gli stessi fascisti. È la tesi, tra l’altro, delle vignette del figlio di Dario e Franca, Jacopo, che eredita le caratteristiche più brutte e più abbiette del padre e della madre insieme.


Ma il papà e la mamma, Dario e Franca, riescono a fare di peggio. Peggio dei Perrone, peggio di Pincherle, peggio di Marrone: creano una vera e propria rete di sostegno per i terroristi, con il fine di creare un clima mediatico e politico a loro più favorevole, influenzando giornalisti e opinionisti come politici, oppure fornendo in totale anonimato denaro e contatti ai terroristi latitanti o in carcere, come Achille Lollo, che sconta due anni per poi scappare dopo la sentenza di primo grado che lo assolse (in seguito sarà condannato a 30 anni che non sconterà a causa della sua latitanza all’estero prima, e a causa della nel frattempo avvenuta prescrizione poi).
La rete di sostegno ai terroristi creata da Dario Fo e Franca Rame si chiama Soccorso Rosso Militante: assistenza legale, logistica, economica agli estremisti di sinistra e ai terroristi colpiti dalla “repressione borghese”, quella dello Stato e degli sbirri, due categorie per le quali Dario Fo e Franca Rame nutrono un vero e proprio odio “di classe”. Ecco la lettera che Franca Rame scrive ad Achille Lollo mentre sconta i primi e gli unici due anni di carcere preventivo per l’omicidio dei fratelli Mattei, lettera che viene scritta, è bene ricordarlo, in un momento in cui sia la Rame, sia Fo, sia la magistratura, sia la Polizia, sia il mondo della carta stampata, hanno capito una verità inequivocabile: ad uccidere i fratelli Mattei, con lucida premeditazione, sono stati Lollo, Clavo e Grillo:
"Caro Achille, ti ho spedito un telegramma non appena saputo del tuo arresto, ma oggi ho saputo che i telegrammi in partenza da Milano hanno anche 15 giorni di ritardo. Arriverà che sarai già uscito. Ieri e oggi i giornali parlano di te dando ottime notizie. Caduta l'imputazione di strage. Bene! Sono contenta. Quello in cui spero tanto è che al giudice Sica capiti quello che è capitato anche a Provenzale. Così, dopo aver provato sulla propria pelle quello che vuol dire la prossima volta staranno attenti (a loro o ad un loro figlio). Comunque credo che tu sia un pò contento. Anche il fatto ridicolo degli esplosivi seguirà l'altro, anche perchè di esplosivi non ne avevi. Io non ti conosco, ma come molti sono stata in grande angoscia per te. Ho provato dolore ed umiliazione nel vedere gente che mente, senza rispetto nemmeno dei propri morti. Dolore di saperti protagonista di quel dramma scritto da un pessimo autore. Ti ho inserito nel Soccorso rosso militante. Riceverai denaro dai compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo. Comunicami immediatamente la tua scarcerazione, che avverrà prestissimo. Se puoi scrivi. Un fortissimo abbraccio."
Eccola, Franca Rame, la paladina dei diritti umani, l’eroina del politicamente corretto, ancora oggi incensata e venerata dalla stampa mainstream: sostiene i terroristi, minaccia velatamente i giudici e i loro figli, mente, sapendo di mentire, sui veri responsabili (quelli del MSI mentono “senza avere rispetto dei propri morti”, no?). Eccolo, il tanto celebrato Premio Nobel.
Ora, che pensavamo di esserci liberati di tanta meschinità, di tanta bassezza, di tanto odio, siamo costretti a sorbirci il figlio, quello stesso che i morti di Primavalle li irrideva con le sue vignette disgustose, decantare il padre come un martire, come uno scomodo, addirittura come un “ribelle”.
Ma quale martire? Ma quale personaggio scomodo? Ma quale “ribelle”? Dario Fo la ribellione non sapeva nemmeno dove stesse di casa.
Abbiamo a che fare solamente con un personaggio disgustoso, voltagabbana e infame prima, pronto a saltare sul carro del vincitore quando le sorti della guerra hanno visto la sconfitta dell’Asse, sempre dalla parte di quelli che contano, prima fiancheggiatore di terroristi, poi sostenitore del PD, poi sostenitore dei grillini, guitto d’avanspettacolo osannato e condannato da compagni e soci.
Non ci mancherà. Per nulla.