lunedì 4 novembre 2013

Onore agli eroi greci, disprezzo per i gazzettieri



Dovrebbe esistere un limite, un segnale di stop, un momento di silenzio nella vita di qualunque uomo, fosse anche il più combattivo, determinato e polemico tra gli uomini. È il momento in cui, davanti alla morte, si tace e si rimane in silenzio, lontano dalle declamazioni di parte e dai rancori della politica, della religione o dell’ideologia. Si commemorano i morti, o si riflette quantomeno su di essi, e, soprattutto, si permette all’altra parte, all’avversario, fosse anche il proprio peggior nemico, di piangere i suoi. È lo stesso Omero, nella sua Iliade, che ci racconta come, anche nelle battaglie più sanguinose e cruente, vi fossero delle pause prestabilite tra i due eserciti: davanti alla morte perfino l’avversario più acerrimo deponeva la spada e rimaneva in silenzio, ad onorare le lacrime del nemico che piangeva il camerata che combatteva fino a poco prima al suo fianco. Addirittura era stabilito un campo neutro, tra i due schieramenti nemici, dove ciascuno consegnava vicendevolmente all’altro i corpi dei morti che aveva fatto prigionieri, affinché potesse esser data a quegli stessi corpi una degna sepoltura.

Il dolore della morte è ciò che di più personale, di più intimo e di più sacro possa esserci all’interno di una comunità: rispettarlo ed onorarlo fa parte dell’antropologia e della spiritualità dell’uomo, dagli albori del mondo fino ad oggi. 

In queste ultime settimane abbiamo potuto sperimentare, sulla nostra stessa pelle, come i nostri avversari politici concepiscano le nostre, di morti: con un disprezzo ed un odio così acuto e pungente da diventare disumano e finanche crudele. Li abbiamo visti all’opera, i nostri nemici politici, gli antifascisti di professione, i democratici a comando, i sostenitori dei diritti umani imposti a suon di bombe e decreti legge, riempire di calci e di sputi la bara di un soldato che aveva avuto, nella sua vita, un unico torto: essersi comportato da soldato e da uomo prima e dopo la guerra; li abbiamo visti nascondere la tomba per evitare che qualcuno tra noi potesse piangere quella morte. Nascondere il corpo di un morto a chi vuole piangerlo, dopo che ci si è incarogniti contro di lui in vita e dopo la vita, è qualcosa che non si riscontra nemmeno nelle civiltà aborigene, che sono pur conosciute per la macabra abitudine di divorare il cuore dei nemici uccisi.

Ci siamo rassegnati a non avere nemmeno una tomba su cui pregare Erich Priebke e, dopo essere stati bene attenti a non guardare i servizi televisivi di quelle bastarde carogne che troppo gentilmente si suole definire come “giornalisti”, al fine di evitare di farci il fegato amaro e di aggiungere la rabbia al dolore, ci siamo abituati all’idea di piangerlo da soli, dentro di noi, il nostro morto. Il nemico è barbaro, è disumano, mostra una crudeltà che, in tutta franchezza, ci stupisce e talvolta ci spiazza e ammutolisce, perché ci rafforza nella nostra convinzione che la battaglia che portiamo avanti è, se possibile, ancora più sacra: non combattiamo contro uomini, bensì contro mostri senz’anima.

Quanto alla gioia degli antifascisti per la morte di un bastardo nazista, siamo vaccinati alle indecenti esultanze di chi si rallegra della morte altrui: della disumanità di questa gente ce ne siamo fatti ampiamente una ragione. Quindi pensavamo, dopo la scomparsa del Capitano, di aver assistito al peggio del peggio. Incredibile ma vero, ci siamo sbagliati. Non siamo mai sufficientemente smaliziati contro questi immondi esseri, che per comodità definiremo gli “antifascisti”, con i quali abbiamo a che fare.


La morte di Manolis Kapellonis e Yorgos Fundulis, i due militanti di Alba Dorata che sono stati uccisi a sangue freddo in una pubblica strada di Atene da un commando di terroristi dei quali non si conosce ancora bene l’identità, ha, se possibile, risvegliato quegli ulteriori appetiti cannibali che pensavamo fossero stati già sfogati con la morte di Priebke. Abbiamo dovuto leggere, su Facebook come altrove, le solite squallide esultanze. “Due Fascisti in meno!”, “Speriamo che li ammazzino tutti”, “Tanto erano solo due razzisti di merda”, e via dicendo. Quello che non avremmo mai pensato è che anche i media, nei confronti dei quali, come si sa, non nutriamo alcuna particolare fiducia, avrebbero ripreso pari pari gli stessi atteggiamenti. Ieri, nello speciale andato in onda su Canala 5 relativo al movimento greco, si è parlato della morte di due ragazzi di vent’anni come qualcosa di ineluttabile, come un terremoto o un alluvione: «Morti due militanti neonazisti». E invece, giova ricordarlo, quei due militanti non sono morti in un alluvione o a causa di un terremoto: sono stati crivellati di proiettili da un commando di terroristi mentre uscivano dalla sede di un movimento politico perfettamente legale e regolarmente candidato alle elezioni. Senza che, nelle ore successive, un solo politico o giornalista greco esprimesse solidarietà alle famiglie, agli amici, e chiedesse a gran voce giustizia. Anzi: è stato blindato il luogo dell’esecuzione fino ad un chilometro di distanza per rendere ancora più difficoltoso, a chiunque l’avesse desiderato, avvicinarsi a rendere omaggio alle salme che erano lì, stese sul selciato, ancora immerse nel sangue caldo.
Oggi la Gazzetta dello Sport trovava il tempo di dedicare un articolo allo striscione che i tifosi della Lazio hanno voluto dedicare ai ragazzi greci durante l’incontro Lazio – Genoa. Lo striscione, come potete vedere in foto, recita: “Il tramonto è rosso, l’Alba Dorata. Manolis e Yorgos presenti”. Questo striscione ha la sua bella etichetta: i pennivendoli, quando l’ordine arriva direttamente dalla loggia, sanno affibbiarle bene, le etichette. “Striscione filonazista”: ecco come lo hanno definito quelli della Gazzetta. A noi viene da pensare: che cosa c’è di filonazista nel voler commemorare la morte di due ragazzi che sono morti massacrati a colpi di mitragliatrice automatica solo perché combattevano dalla parte sbagliata? C’è forse qualche swastika? Qualche riferimento ad Adolf Hitler? Qualche simbolo Nazionalsocialista o un più o meno palese riferimento al Nazionalsocialismo o al Fascismo? Niente affatto. Ma per questi disgustosi e disgraziati pennivendoli lo striscione è filonazista: basta questo a spegnere, nel lettore italiano medio, notoriamente ignorante e cretino per definizione, qualunque sentimento di pietà per due vite stroncate così, solo perché appartenevano ad un movimento di destra. Pietà l’è morta, quando si tratta di Fascisti.
Ma non finisce qui. Poteva mancare, sempre nello stesso articolo, l’intervento di Riccardo Pacifici, il presidentissimo delle Comunità Ebraiche Italiane che, come suo solito, non perde occasione per tacere? «Ogni pretesto, anche la barbara uccisione di due giovani, diventa – in determinate frange del tifo italiano – un pretesto per inneggiare e fare apologia di movimenti che hanno nel proprio dna il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia. Il razzismo negli stadi è un fenomeno inammissibile e come tale deve essere trattato. Per questo auspichiamo un pronto intervento e severi accorgimenti da parte delle autorità competenti.»
Ringraziamo Riccardo Pacifici per aver definito il massacro di due ragazzi di destra una “barbara uccisione”: si è già portato una spanna avanti rispetto a quei giornalisti che gli tengono il bordone ogni qualvolta ha voglia di sparare qualche cazzata, come in questo caso. Ma ci viene da chiedere al buon Riccardo Pacifici, e a coloro che la pensano come lui: cosa c’entra il razzismo, la xenofobia, il razzismo e l’esaltazione di movimenti violenti il commemorare la morte di due militanti politici? Lo striscione l’abbiamo visto: a meno che non si sia ossessionati da qualche malattia mentale non si legge niente di più di quello che vi è scritto.
Ma è già troppo tempo che il presidentissimo, con la consueta tracotanza che lo ha reso famoso, va in giro a dare patenti di democrazia e di legittimità a chi gli pare e piace e a chiedere l’arresto immediato per tutti coloro che non la pensano come lui.
Signor Riccardo Pacifici, nel caso legga questo scritto, colgo l’occasione per scriverle delle cose che i suoi sgherri, nelle logge e nelle sinagoghe in cui è sempre ben accetto, difficilmente avranno il coraggio di dirle. In questo Paese, se ne faccia una ragione, c’è ancora chi non si arrende e chi rivendica fieramente il proprio diritto a pensarla diversamente da lei e da quelli come lei. In questo Paese c’è chi pensa che sia sbagliato massacrare i Palestinesi per impossessarsi della loro terra. In questo Paese c’è chi pensa che sia sbagliato incarcerare gli storici o anche i semplici cittadini che hanno idee politiche o storiche diverse dalle sue. In questo Paese ci sono due cose che si chiamano Magistratura e Polizia: a questi due organismi, e a nessun altro, spetta il compito di decidere se un movimento o partito politico è legale o no e se possa o meno presentarsi al giudizio dei cittadini e degli elettori. In questo Paese c’è ancora chi rivendica il diritto di onorare e piangere i propri morti, anche se sono dei cattivi Fascisti. O forse dobbiamo chiederle il permesso per esporre uno striscione allo stadio o commemorare due ragazzi massacrati a colpi di arma da fuoco da quella stessa stampa asservita e complice che ha ben contribuito a fomentare un clima di odio e di tensione contro Alba Dorata e i suoi militanti, clima di odio e di intimidazione che lei, del resto, signor Pacifici, dovrebbe conoscere bene? E quali dovrebbero essere i severi accorgimenti da parte delle autorità competenti che lei auspica? Dovrebbero andare ad arrestare a casa loro i ragazzi della Lazio che hanno esposto quello striscione? E con quale accusa dovrebbero venire arrestati e processati? Con l’accusa di aver esposto uno striscione che commemora Manolis Kapellonis e Yorgos Fundulis? Dovremmo forse richiedere il timbro dell’UCEI per aprire un movimento politico o per esporre uno striscione allo stadio?
Questo vi si doveva, per rendere, almeno in minima parte, giustizia delle vostre stronzate e del vostro odio. E adesso continuate pure nel vostro rabbioso e bavoso delirio: noi abbiamo due camerati da piangere. E non sarete voi a darci il permesso di farlo. Fatevene una ragione.

venerdì 11 ottobre 2013

Che la terra ti sia lieve, Capitano.



Sembra quasi destino che coloro che per tutta la vita sono vissuti da eroi debbano morire così, tra il disprezzo generale della vile plebaglia antifascista e dei comunisti rifondaroli e bombaroli. Vedere i commenti sui vari siti internet e sui forum di politica per la morte del Capitano dimostra, ancora una volta, la bassezza e lo schifo che caratterizza gli antifascisti, dal punto di vista umano ancor prima che da quello politico.

Perché, in fondo in fondo, Erich Priebke rappresenta tutto quello che loro sanno bene non potranno essere mai. Non ha mai rinnegato le proprie idee; non ha mai chiesto scusa; non ha mai chinato la testa; non ha mai piagnucolato o chiesto la grazia. Nemmeno quando un Ministro della Giustizia, sotto la pressione odiosa e bavosa dei giudei inviperiti che cercano di linciare i giudici che gli hanno concesso la prescrizione per la strage delle Fosse Ardeatine dentro l’aula del Tribunale di Roma, interviene per far annullare il processo e per farlo condannare, in spregio delle più elementari norme di diritto. 

Un sorriso per tutti, un saluto agli amici, la testa sempre alta e lo sguardo, nonostante l’età, sempre acceso e brillante. Forse quello che dava e da fastidio alla canaglia criminale che oggi gongola è proprio questo. Mai una parola di odio, mai un accenno di pentimento, bensì la sopportazione stoica della giustizia democratica, ben più canagliesca e rancorosa di quella di qualunque altro regime. Quasi come se con quello sguardo il Capitano avesse voluto dire: “Colpitemi, insultatemi, dileggiatemi: comunque vada non riuscirete mai a piegarmi”.

In questo stava tutta la libertà di Priebke: lui, che dopo la guerra ha passato bene o male tutta la sua vita dentro un carcere, è stato molto più libero di tutti gli umanoidi oggi esultanti che magari non hanno mai fatto un giorno di galera, ma che sono servi e incatenati alla loro rabbia e al loro odio disumano.

A noi, che sappiamo omaggiare i camerati così come i nostri nemici in egual misura, rimane l’esempio umano che ci dimostra che anche ai giorni nostri, in un periodo di decadenza morale e spirituale dell’Europa, si deve e si può ancora tenere alta la fiamma della dignità e dell’Onore, senza mai cedere a compromessi.

Voi, amorfa e inutile plebaglia, continuate a danzare pure attorno al cadavere del leone. Il leone, anche morto, resta pur sempre un leone. E voi, anche da vivi, resterete sempre una inutile e amorfa plebaglia.

Che la terra ti sia lieve, Capitano. Chissà che non ci si possa rincontrare, un giorno.

venerdì 2 agosto 2013

Boldrini, Kyenge e la strategia massonico-mondialista



L’errore più grande che mai potremmo fare, nell’analizzare la situazione politica italiana attuale, è quello di pensare che l’azione del governo Letta non abbia, dietro di sé, una ben chiara e precisa strategia. Che consiste, essenzialmente, in questo: sradicare ogni senso di appartenenza e di identità degli italiani onde renderli più docilmente asserviti alle potenti lobbies che, almeno dal 1945, hanno eletto quella che un tempo era la nostra amata Patria a terra di conquista. 

In questa azione, sottile ed instancabile, si distinguono due personaggi che, per il sistema, sono stati giudicati come altamente spendibili.

La prima è, innanzitutto, Laura Boldrini, la Presidente della Camera, chiamata simpaticamente anche come “Miss 2%”, nipote del più famoso Arrigo Boldrini, il prode partigiano, nome di battaglia “Bulow”, che si macchiò di crimini orrendi ed indicibili, tra i quali l’ormai celebre – almeno per chi abbia un minimo di cultura (quindi non i decerebrati della sinistra!) – massacro di Codevigo, in cui vennero trucidate, dopo essersi arrese pattuendo di aver salva la vita, più di centrotrenta persone, tra le quali diversi bambini. Un filo sottile lega Miss 2% al più blasonato e tristemente famoso avo: così come il nonno si macchiava le mani e la coscienza di sangue innocente per favorire l’invasione della Patria da parte degli alleati, allo stesso modo la nipote, umilmente, si prodiga con energia perché questo disgraziato Paese, che solo negli ultimi anni ha visto chiudere qualcosa come cinquantamila aziende, con un aumento di trecentomila disoccupati in più, venga invaso sempre più da una massa enorme di disperati e di allogeni, molto più facilmente preda della manovalanza a basso costo così tanto cara all’imprenditoria capitalistica, oramai storicamente propensa ad arricchirsi sulle spalle della povera gente. Passano i tempi, ma la famiglia Boldrini è sempre e comunque dalla parte dell’invasore: un marchio di fabbrica!

E poi ce la ricordiamo, Miss 2%, nella più strenua e disperata difesa di tutto ciò che è anti-italiano: diritto di voto agli immigrati, ius soli, “I rom devono essere orgogliosi della propria cultura”, e altre porcate simili che hanno suscitato l’ilarità di chiunque non abbia ancora portato all’ammasso la propria capacità critica.

Il tutto corredato, naturalmente, da un intero schieramento di Polizia informatica (ben 7 persone alle sue dipendenze) che ha il compito di sorvegliare e scandagliare minuziosamente la rete alla continua ricerca di qualunque insulto o commento a Miss 2%. Si sa: il confronto democratico, per la nipote del partigiano assassino, viene prima di tutto. A meno che non sia lei a doverlo subire, si intende.

A farle eco c’è poi l’altro Ministro, Cecile Kyenge. Bisognava essere davvero deficienti per elevare questa nullità, che ricorderemo solo per le sue ridicole prese di posizione sullo ius soli e per aver permesso la scarcerazione di due criminali ladri quando era una fervente militante pro-clandestini, ad un legittimo referente politico. La destra, con i suoi insulti in stile “Kyenge come un orango” conditi da lancio di banane, è riuscita in questa incredibile impresa. Sarebbe bastata solo qualche sonora pernacchia per mettere a tacere quella che, con le sue manifestazioni di solidarietà a clandestini e feccia varia, le sue continue provocazioni sullo ius soli e sul burqa delle suore, altri non è che una provocatrice di professione.

E qui veniamo al problema: la consapevole disintegrazione dell’italianità che il governo Letta, massone e saltuario partecipante alle riunioni del Bilderberg Group, porta avanti con una lucidità metodica.

Laura Boldrini, prima di essere Presidente della Camera, altri non era che il Commissario dell’ONU per i rifugiati. Un organismo massonico e mondialista che ha fatto dell’azzeramento di qualunque cultura nazionale ed etnica il suo scopo fondamentale. Sa molto bene cosa deve fare, la Boldrini. Le sue sono esternazioni ben più lucide di quelle di un qualche militante strafatto di cannabis di SEL, per quanto le due cose vengano a coincidere (sic!).

La Kyenge, l’abbiamo già scritto, altri non era che un’oculista che tuttalpiù si dilettava a difendere criminali e allogeni di varia natura, tra i quali l’ormai noto criminale e ladro Senad Seferovic, che fu liberato a suo tempo grazie all’interessamento della rete Primo Marzo, una di quelle migliaia e migliaia di organizzazioni che hanno fatto dell’immigrazione un affare altamente danaroso, presieduta a suo tempo dal Ministro. La pelle nera si è rivelata un investimento utile: chi più di lei può permettersi, oggi, di sparare minchiate in continuazione, certa della più totale impunità che il suo colore della pelle le garantisce agli occhi di un’opinione pubblica e di una politica che, nei rari casi in cui hanno provato a muoverle qualche critica, si sono viste intimidire con l’accusa di razzismo e di estremismo? Un po’ come Balotelli, il calciatore straviziato che straparla di razzismo e di omofobia e non ha ancora capito che se può continuare a permettersi i suoi atteggiamenti arroganti e presuntuosi, tipici del pidocchio che si è arricchito ingiustamente e senza alcun merito che non sia quello di saper giocare bene a calcio, è proprio grazie al colore della sua pelle, che lo rende una sorta di intoccabile. E infatti la Kyenge vuole fare di Balotelli un testimonial a favore dello ius soli. Uno che non ha nemmeno riconosciuto la figlia, e che si accompagna con troiette e donnacce un giorno si e l’altro pure, vuole dare lezioni a noi italiani sul riconoscimento della cittadinanza italiana a chi non ha alcun titolo per meritarla. Ridicolo. 

Anziché lanciarle addosso banane, sarebbe bastato far notare al Ministro solo questo.

lunedì 15 luglio 2013

Italia 33° grado

Riproponiamo un interessante filmato sugli scopi e gli obiettivi della Massoneria che "stranamente" è stato eliminato da YouTube. Buona visione.


lunedì 17 giugno 2013

Italia 33° grado

Consigliamo la visione del seguente filmato, ovviamente censurato dai media tradizionali.
Distruzione delle Nazioni, creazione del Nuovo Ordine Mondiale, impoverimento progressivo ed ineluttabile dei cittadini, controllo dei cittadini mediante chip sottocutaneo: questi gli obiettivi della Massoneria mondiale.


domenica 16 giugno 2013

Francesco Cecchin, caduto dal balcone con le chiavi strette in mano

Francesco Cecchin: caduto dal balcone con le chiavi strette in mano
 Fonte: http://www.ilgiornaleditalia.org/news/primopiano-focus/847266/Francesco-Cecchin--caduto-dal-balcone.html
 
 
E' il 16 giugno del '79 quando il giovane militante del Fronte della Gioventù muore, dopo 19 giorni di agonia
Per questo omicidio non pagherà mai nessuno, anche grazie alla connivenza del Pci che ha sempre coperto l’unico imputato.
“E Francesco che è volato sull’asfalto di un cortile, con le chiavi strette in mano, strano modo per morire…”
Queste le parole della canzone “Generazione ‘78” che Francesco Mancinelli dedica a tutti i caduti di quegli anni di piombo maledetti. E anche a Francesco Cecchin. Parole che, ancora oggi, fanno venire la pelle d’oca. “Con le chiavi strette in mano..”. Eh si, proprio così perché quel ragazzo morì all’età di 17 anni, prima massacrato di botte da quattro “compagni” vigliacchi (di cui non si è mai saputo il nome) e poi gettato da un balconcino, sull’asfalto. Un volo di cinque metri. Che dopo 19 giorni di coma, lo ha ucciso. Nonostante le sue condizioni erano nettamente migliorate. “…Strano modo per morire”. Sembra di raccontare la storia di Sergio Ramelli, ancora una volta.
Siamo a Roma, quartiere africano. Il mese di maggio sta volgendo al termine. L’estate è alle porte. Le scuole stanno finendo, i ragazzi iniziano a pensare cosa fare in vacanza. Ma chi fa politica, in quegli anni, non va mai in vacanza. L’ideale prima di tutto. Si fa politica 365 giorni l’anno. Per gli ideali, però si muore anche, in quegli anni.
Si muore per il proprio credo  politico. E, come è successo a Francesco,  anche solo per aver attaccato un manifesto nel posto sbagliato. Il motto, tanto, è sempre lo stesso: “uccidere un fascista non è reato”.
È soprattutto nella capitale che la guerra tra i “rossi” e i “neri” diventa una questione di egemonia territoriale, di “conquista dei quartieri”.
Francesco Cecchin è davvero giovane. Non ha ancora diciott’anni. È alto, biondo e con gli occhi azzurri. Insomma, il classico bel tipo pieno di ragazze innamorate di lui. “Abbiamo scoperto che aveva due fidanzate, non una. Ed entrambe molto carine”, le parole della sorella Maria Carla.
Ma per lui la priorità è una sola: la politica. È un militante del Fronte della Gioventù; frequenta la sezione di via Migiurtina, la zona più rossa del cosiddetto “quartiere Africano”. L’unico avamposto di sinistra di tutto il circondario, che è invece notoriamente fascista.
Quella sezione del Msi appare come una provocazione in una porzione di territorio che i militanti del Pci considerano “cosa loro”. Diventa ben presto un bersaglio, fino ad essere costretta a chiudere.
Un quartiere, quello Trieste-Salario, che è uno dei campi di battaglia più caldi di Roma. Cecchin è un ribelle nato. Ha solo 17 anni ma coraggio da vendere. È già un leader, un rivoluzionario. Tanto che Terza Posizione lo vorrebbe con sé, anche se è così giovane.
A scuola non va benissimo. Ma più che per demeriti suoi, per colpa dei compagni che lo prendono di mira.
I primi due anni di liceo sono difficili. Due bocciature al tecnico “Mattei”. Di lui, non si può certo dire che sia un “secchione”, ma frequentare la scuola è davvero difficile per Cecchin. Sembra il ripetersi della storia di Sergio Ramelli. Viene isolato, è riconoscibile, un bersaglio facile. Va via da quell’istituto e si iscrive al liceo artistico di via Ripetta. Può così seguire la sua passione innata per il disegno. Il ragazzo passa intere nottate con i pennarelli in mano. Il suo capolavoro è un ritratto di Corneliu Zelea Codreanu, il fondatore delle “Croci frecciate rumene”.  Se lo attacca in camera. “CAMMINA SOLTANTO SULLE STRADE  DELL'ONORE. LOTTA E NON ESSERE MAI VILE. LASCIA AGLI ALTRI LE VIE DELL'INFAMIA”. Questa è la frase del rivoluzionario a cui più si ispira.
Ma anche all’artistico gli studenti di sinistra sono moltissimi. Ci fa a botte spesso, Cecchin, con i “compagni” che non lo lasciano in pace. La voce si sparge presto: “è un fascista, non deve passarla liscia”.
Non è un violento, ma neanche uno stinco di Santo. Sicuramente però è un ragazzo dall’animo buono.
La sua famiglia è di Nusco, in provincia di Avellino, il “feudo” di Ciriaco De Mita. Il papà, Antonio, è un funzionario del settore cinema al ministero dei Beni Culturali. È stato volontario in Somalia e imprigionato dagli inglesi prima di essere consegnato agli americani, venendo trasferito in cinque campi di prigionia diversi negli Usa. Uno tosto insomma. Il figlio ha preso da lui. La mamma fa la casalinga e la sorella, Maria Carla, studia al primo anno di giurisprudenza. Non navigano nell’oro i Cecchin, ma riescono a vivere in maniera comunque dignitosa. Sono molto uniti.
La sera del 28 maggio 1979 Francesco è in Piazza Vescovio. Nel  suo quartiere. Sono le 20, minuto più minuto meno. È  insieme con altri tre ragazzi del Fronte della Gioventù. Devono fare affissione. Barattolo di colla e scopa, come di consueto.  Ma i giovani camerati vengono notati da un gruppo consistente di compagni, che gli si avvicinano e iniziano a coprire i manifesti.  Sono molti di più, come sempre. Venti contro quattro. Vigliacchi. Poco distante da lì, c’è una macchina, una Fiat 850 bianca parcheggiata. Nessuno ci fa caso inizialmente. I compagni sono della sezione del Pci di via Monterotondo. Il loro capo è Sante Moretti, 46 anni ed un passato da pugile. “Vi abbiamo fatto chiudere via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche viale Somalia” urla ai quattro missini. Poi si rivolge a Cecchin, e lo minaccia: “tu stai attento, che se mi incazzo ti potresti fare male”. Lui, Francesco, non fa una piega, non si fa intimidire. Un coraggio da leoni. Lo guarda con aria di sfida, si volta e se ne va. Quella frase, quella minaccia, è la dimostrazione che i gruppi di sinistra ortodossa ed extraparlamentare lo temono. Temono un ragazzino di 17 anni con un cuore immenso.
Quella notte Francesco non ha sonno. Ha voglia di uscire. Ma è minorenne e senza sua sorella Maria Carla, i suoi non gli danno il permesso. “Era già mezzanotte. (…)Ero più grande di due anni, sapeva bene che senza di me non era possibile. I nostri genitori non volevano. Si avvicinò e mi disse: ‘Marica Carla, eddai! Vieni con me. Andiamo a fare un giro’. Avrei dovuto pensare che fosse tardi, che era pericoloso, che non aveva senso.  Ma non lo feci e risposi va bene”. (tratto da Cuori Neri di Luca Telese)

I due fratelli escono.  È mezzanotte e un quarto. Il bar “Vescovio” è chiuso. L’edicola anche. È buio pesto e per strada non c’è nessuno. Francesco e Maria Carla camminano sul marciapiede di via Montebuono. Ad un tratto si avvicina una Fiat 850 bianca che procede lentamente e li segue. La stessa auto parcheggiata in piazza poche ore prima. Il finestrino si abbassa e qualcuno grida “è lui, è lui, prendetelo!”. Scendono due uomini, si mettono a correre per prendere Cecchin. Lui fa solo in tempo a dire alla sorella di scappare, di andarsene e di chiamare aiuto. Poi inizia a correre. E corre anche Maria Carla, ma non riesce a stargli dietro. Impaurita inizia a urlare più volte “Aiuto, aiuto, aiuto!”.
I tre scompaiono nel buio di Via Montebuono. Le  grida della ragazza vengono udite da un giovane che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo. Poi  salire su quella maledetta Fiat 850 bianca e scappare. Il corpo di Francesco viene ritrovato poco dopo all’altezza del civico 5 (sempre di Via Montebuono). In un terrazzino situato sotto il livello del marciapiede di quasi cinque metri. E’ esanime, disteso sull’asfalto. È in posizione perpendicolare al muro, appoggiato di schiena, con la testa sopra un lucernario. E orientata verso la parete. Impossibile credere che si sia buttato da solo. Francesco è ancora vivo, però. È privo di conoscenza, ma vivo. Perde sangue dalla tempia e dal naso. E poi, nella mano destra ha ancora un pacchetto di sigarette, in quella sinistra stringe un mazzo di chiavi. Incredibile. Cecchin ha fratture più o meno in tutto il corpo, ma la gambe e le braccia sono intatte. Morirà in ospedale dopo 19 giorni di agonia. Il 16 giugno 1979. Soltanto un giorno prima, i medici avevano comunicato alla famiglia un netto miglioramento delle sue condizioni. Poi la morte improvvisa. Se si fosse ripreso avrebbe riconosciuto i suoi assassini e parlato. “Spesso, durante il periodo in cui Francesco è stato in ospedale, sono venute a trovarlo delle persone che io definirei sospette (…), secondo me erano tutti comunisti che volevano vedere le condizioni di mio figlio. Loro lo sapevano bene: se lui fosse rimasto in vita avrebbe denunciato i suoi aggressori. Li aveva riconosciuti e questo loro lo sapevano. E non c’era nemmeno alcun servizio di polizia in ospedale. Poteva entrare chiunque. Stava migliorando. Cosa è successo dopo? Io ancora non so come sia morto mio figlio” (tratto da Cuori Neri).

Ma cosa è accaduto realmente in quei minuti dove i due aguzzini e il giovane si sono dileguati nella notte di quel 28 maggio? Testimoni raccontano di aver sentito prima delle grida, e poi un tonfo. La dinamica non è poi cosa assurda da ricostruire. Almeno per chi voglia farlo in buona fede. Francesco Cecchin è stato inseguito dai suoi aggressori, ha scavalcato il cancelletto di via Montebuono 5 (dove abita un suo amico), ma è stato raggiunto e picchiato in maniera feroce. Ha provato a difendersi con un mazzo di chiavi, ma, dopo aver perso i sensi , è stato buttato giù dal muretto. È stato ucciso. Assassinato. Ma l’omicidio si vuole nascondere. Secondo i tre periti nominati  dal Tribunale: Alvaro Marchiori, Gaetano Secca e Giancarlo Ronchi, non c’è nulla che possa dimostrare che Cecchin sia stato picchiato e poi gettato dal muretto. Ci risiamo. Ancora una volta si vuole far pensare che sia stato solo un brutto incidente. Qualcuno ha anche il coraggio di negare che ci sia stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori, come ha fatto il commissario, il Dott. Scali. Ma i camerati no. Loro vogliono andare a fondo ed iniziano a fare indagini parallele. Raccolgono il materiale necessario per far uscire la verità. Le indagini ufficiali, condotte male, portano in tutto e per tutto all’arresto di Stefano Marozza, indicato come l’autista della Fiat. Marozza, però, ha un alibi. Dice che quella sera è andato al cinema a vede “Il Vizzietto” al cinema Ariel. Peccato però che quel film, all’Ariel, non viene proiettato. Marozza entra in carcere a luglio. Viene rilasciato a gennaio grazie alla solerte opera di protezione messa in atto dal Pci che, nel frattempo, gli ha fabbricato un nuovo alibi. Ad hoc.  La sentenza di assoluzione ha dell’incredibile. È una condanna senza colpevole: “veramente grave e singolare appare che i periti non abbiano approfondito l'indagine, non si siano recati sul terrazzo dell'abitazione degli Ottaviani(…) Altrettanto singolare che non abbiano tenuto in alcun conto i referti dell'ospedale San Giovanni.  È convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario”.

 La morte di Francesco Cecchin, una faccia da angelo ed un cuore, nero, da rivoluzionario è rimasta senza colpevoli.
Quel ragazzo di diciassette anni, militante, ammazzato da un branco di vigliacchi, vive in tutti i suoi camerati. Ancora oggi. Nel loro ricordo non lo hanno ucciso. Francesco è presente!
Paolo Signorelli

venerdì 14 giugno 2013

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino

Pubblicato su Il Lavoro Fascista - settembre 2012

Anche se, nel nostro caso, sarebbe più corretto scrivere: “Tanto va il prefetto mafioso al sabotaggio, che si prende sul muso un ricorsino”!
E già, perché come accade molto raramente in questa indegna repubblica delle banane, finalmente uno dei tanti farabutti e Vice Prefetti che presiedono le Commissioni Elettorali, si è visto sbugiardare dal TAR, in questo caso quello dell’Abruzzo.
Ricorderete la questione di Montelapiano, microscopico paesino in provincia di Chieti; in occasione delle ultime amministrative, la Camerata De Ritis presentò la lista del MFL-PSN, ma i soliti mafiosi della locale Commissione Elettorale rifiutarono il nostro logo, sia nella versione con la parola “Fascismo”, sia in quella epurata con la sola sigla “MFL”. Inoltre, il farabutto che presiedette questo schifoso ed ennesimo abuso, pensò bene di negarsi a qualsiasi colloquio con la stessa De Ritis, che dopo avere fatto ore di anticamera tentava di salvare la lista, proponendo anche la terza versione del logo, con sigla “PSN”.
Fiero dei suoi scagnozzi, il Prefetto di Chieti, successivamente, fece respingere il ricorso del nostro avvocato, nel quale si chiedeva una nuova riunione della Commissione in regime di auto-tutela per riesaminare la questione. Di norma, essendo i magistrati italiani più corrotti ed in malafede degli stessi prefetti, questa lunga serie di abusi sarebbero stati premiati con la solita medaglietta antifascista e con la bocciature di ogni nostro ricorso, sia esso amministrativo e/o penale.
Ma in questo caso, con nostra somma sorpresa, ci siamo imbattuti in magistrati onesti e competenti, i quali hanno sentenziato che il nostro successivo ricorso post-elettorale era del tutto legittimo e che andava, quindi, accolto.
Così, come potrete leggere nelle pagine che seguono di questo numero del giornale, interamente dedicato alla Sentenza del TAR dell’Abruzzo, le elezioni di Montelapiano sono state annullate e si dovrà andare a nuove elezioni, permettendo al MFL-PSN di esercitare, una volta tanto, i propri diritti politici.
Ovviamente questa Sentenza imprevista ha già scatenato uno psicodramma antifascista, con Prefetto, Sindaco e chissà chi altri pronti a ricorrere al Consiglio di Stato; la strada sarà ancora lunga, ma godiamoci il trionfo del momento.
Fra l’altro, la suddetta Sentenza fa giustizia delle tante invenzioni che abbiamo, purtroppo, letto in altri pronunciamenti che ci davano torto (come una Sentenza del TAR del Piemonte di pochi anni fa, stravolta da dei mascalzoni comunisti in toga che la riempirono di considerazioni storiche e politiche prive di senso e ben al di fuori del diritto amministrativo vigente); viene, infatti, chiarito che le Commissioni Elettorali non possono e non devono travalicare le competenze assegnate loro dalla Legge, ovvero, quelle elencate con estrema precisione dagli artt.30 e 33 Dpr n.570/1960.
Come ottimamente dicono i magistrati abruzzesi,
“La lettura delle disposizioni vigenti in materia, non fanno cenno alcuno alla possibile valutazione circa il valore politico, democratico o meno, del simbolo presentato, da parte della Sottocommissione circoscrizionale, anche perché trattasi di una discrezionalità che va oltre i tipici aspetti amministrativi; il legislatore ha fatto una elencazione puntuale e tassativa che l’organismo amministrativo é tenuto a rispettare.
In tal senso sono gli artt. 49 e 51 cost. (C. Cost. n. 256/2010) e la stessa disposizione XII, che, peraltro, ha trovato attuazione con la L. n. 645/20.6.1952, la quale prevede, ai fini decisori, la competenza del Tribunale penale (artt.2, 4, 5, 5-bis, 6, 7) e la riserva ministeriale (art.3)”.
Quindi, detto in altre parole, quando i membri di una Commissione Elettorale si mettono a pontificare a vanvera di Storia, Costituzione e Diritto Penale, commettono dei veri e propri abusi, se non addirittura dei reati.
Noi lo abbiamo sempre saputo e detto; per fortuna, oggi se ne accorgono anche dei magistrati del TAR; peccato non se ne siano mai accorti i tanti magistrati penali ai quali ci siamo rivolti, invano, nel corso degli anni, per chiedere la giusta punizione nei confronti dei Presidenti delle varie Commissioni Elettorali che ci hanno sabotati.
C’è da aggiungere, inoltre, che è ancora più intollerabile lo sconfinamento in campo penale di questi scagnozzi, se consideriamo che nei nostri confronti si è già pronunciata, più e più volte, proprio quella Magistratura Penale che fin dal 1991 ha riconosciuto del tutto legittimo il nostro movimento, così come il suo nome ed il suo contrassegno elettorale.
Potremmo, al limite, capire se una Commissione Elettorale chiedesse lumi alla Magistratura Penale nel caso in cui si presentasse alle elezioni un movimento politico Fascista nuovo, a proposito del quale non risultasse alcun pronunciamento penale.
Ma non è il nostro caso, e come sempre ho scritto (e scriverò), chi sabota il MFL-PSN tentando di impedirci le elezioni, o di farci presentare con un logo alternativo, è solo un lurido mafioso antifascista!
Carlo Gariglio
www.fascismoeliberta.it