L’Italia è pessima per tante cose, ma soprattutto per
una, in particolare: aprire una partita IVA, una azienda o una attività nel
Nostro Paese dovrebbe essere qualcosa da medaglia al valore.
È la CGIA di Mestre a dipingere un quadro impietoso
della situazione: le partite IVA sono i nuovi poveri. La crisi economica ha
colpito più loro che non pensionati e dipendenti statali: una partita IVA su
quattro è sotto la soglia di povertà, mentre per i dipendenti statali il
rischio è di uno su cinque.
Imprenditori, artigiani, liberi professionisti,
lavoratori in proprio, padroncini, piccole attività: sono loro che hanno pagato,
più di tutti gli altri, gli effetti devastanti della crisi, ancor più forti nel
Mezzogiorno che al nord. Mentre quello dei lavoratori dipendenti è rimasto pressoché
stabile (-0,3%), negli ultimi cinque anni il reddito di chi lavora in proprio è
diminuito di 6.500 euro annui. Un dato ancora più allarmante se pensiamo che,
mentre un lavoratore dipendente, in caso di licenziamento o di cessazione del
suo rapporto di lavoro, può godere di ammortizzatori sociali (cassa
integrazione, contributo NASPI, e via dicendo) un libero professionista o un
imprenditore, quando cessano la loro attività, non dispongono di alcun aiuto:
possono solo cercare di riciclarsi, magari trovando un nuovo impiego.
Con una pressione fiscale reale che si aggira sul 70%
(ciò significa che, su 100 euro guadagnati, 70 spettano, in un modo o nell’altro,
allo Stato, e con gli altri 30 si devono far quadrare i conti, pagare gli
stipendi, reperire il materiale per l’attività, e via dicendo) lo Stato non
aiuta sicuramente.
Sempre più la libera impresa e i valori umani che
questa Nazione può vantare vengono visti come limoni da spremere fino all’osso.
Chi ha una azienda sa bene di cosa parlo. E non sono solo le tasse – già di per
se altissime – a costituire un problema, ma anche tutto ciò che si è costretti
a pagare in più, spesso imposte indirette.
Vendere un mezzo aziendale, ad esempio, è una tragedia:
il passaggio di proprietà può superare anche il migliaio di euro. Quale operazione
tecnica da parte dell’operatore che non sia la pura e semplice modifica del
nome all’interno del sistema informatizzato può giustificare una spesa del
genere?
Altro esempio. Cambiare la sede legale di una azienda è
un calvario: se viene spostata all’interno dello stesso Comune basta qualche
centinaio di euro, altrimenti costa più di 1.200 euro, e non possiamo farlo da
soli, ma dobbiamo avvalerci di un notaio che ovviamente, per questo disturbo,
dovrà essere retribuito. Di nuovo: cosa giustifica un tale importo? Non sarebbe
più semplice una procedura informatizzata con la quale l’Azienda possa
autonomamente modificare, magari all’interno del sito della Camera di Commercio
della provincia competente, la propria sede legale?
Voliamo più in basso. Parliamo di una visura aziendale,
ovvero quel documento che è un po’ la carta di identità dell’attività (sede
legale, volume d’affari, oggetto sociale, media di dipendenti), e che può
servire per tantissime operazioni, come richiedere una fornitura di materiale,
partecipare a delle procedure pubbliche, partecipare a dei bandi di gara,
ottenere prestiti e finanziamenti dalla propria Banca. Ogni sei mesi la visura
catastale “scade”: anche se nella azienda non vi è stata alcuna sostanziale
modifica, anzi, anche se tutto è rimasto esattamente identico a quando la
visura è stata prodotta (non abbiamo assunto nuovi dipendenti, non abbiamo
cambiato sede legale, non abbiamo modificato in alcun modo lo Statuto o toccato
l’oggetto sociale), non si sa perché ma la visura deve essere riprodotta da
capo. Essenzialmente possiamo fare ciò in due modi: recandoci all’ufficio della
Camera di Commercio competente, fare file interminabili e infine renderci conto
che dalle otto e mezza di mattina sono passate due o tre ore; oppure, grazie al
Cielo, collegarci ad uno dei tanti siti che offrono questo servizio quasi in
tempo reale, sperare di non incappare in un sito-truffa, e farci rilasciare la
nostra cara visura. In ogni caso la cosa non ci costerà meno di una ventina di
euro. Una cosa che mi sono sempre chiesto: qualcuno può spiegarmi perché la visura
perda di valore dopo sei mesi?
E dello Spesometro, ne vogliamo parlare? Perfino i
commercialisti più scafati l’hanno giudicata, oltre ad una incredibile perdita
di tempo e di soldi, di una complessità tale che bisogna essere dei pirati
informatici per destreggiarsi all’interno del sito dell’Agenzia delle Entrate
dove, di fatto, si tratta di inserire nuovamente tutta la propria contabilità. Non
sarebbe stato meglio chiedere un rendiconto fiscale alle aziende? Ogni programma
di contabilità, anche il più misero, può produrre in qualche secondo la
documentazione IVA, i flussi di cassa, entrate e uscite dell’azienda. Un normalissimo
file in .pdf che si invia all’Amministrazione competente in caso di controllo. Invece
no. Devi autenticarti sul sito dell’Agenzia delle Entrate – e già questa è una
impresa- inserire nuovamente dati su dati che hai già inserito mentre preparavi
la tua contabilità interna (a seconda del volume d’affari della tua azienda
sono centinaia e centinaia di dati), salvare i dati con un codice alfanumerico
che conosci dopo che ti leggi tutta la manualistica, inviare il file e sperare
in Dio che il sistema ti permetta di monitorare i files che hai trasmesso, perché
altrimenti devi andare nuovamente all’Agenzia delle Entrate, perdendo un’altra
mattinata, per attivare una procedura particolare che “forzi” il tuo sistema a
vedere i files che tu stesso gli hai dato. Qualcuno dirà che si potrebbe
affidare il tutto ad un commercialista, magari più bravo ed esperto di noi, per
semplificare la situazione. Vero, ma solo a metà. Innanzitutto è si caldamente
consigliato avere un commercialista esterno, ma non obbligatorio: potrei
tranquillamente gestire la mia contabilità mediante il mio gruppo di lavoro
aziendale; in secondo luogo sono gli stessi commercialisti che, nella redazione
dello Spesometro, hanno espresso le lamentele più sentite riguardo la
macchinosità e la difficoltà dell’operazione. E se lo dicono loro…
Si potrebbero fare decine e decine di esempi, ma i
comuni denominatori, in tutti, sarebbero essenzialmente due: la perdita di
tempo e la perdita di soldi di tutta una serie di attività burocratiche che
portano via tempo e denaro alla tua attività, costringendoti ad inseguire più
che a programmare, ad improvvisare più che a decidere.
Quasi come se lo Stato vedesse le attività imprenditoriali
come dei nemici e non delle risorse per la Nazione. I nostri governanti le
risorse le vedono nei fancazzisti africani che sbarcano, ogni giorno, a
centinaia sulle nostre coste.
Ma questa è un’altra Storia.
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