lunedì 29 gennaio 2018

Quando il dolore non ha un perché





Arrivi in stazione, timbri un biglietto, sali sul treno e ti siedi, aspettando di arrivare a destinazione. Non pensi che durante quel tragitto potresti morire, o potrebbe accaderti qualcosa di grave e di molto brutto. 

Ci piace pensare di vivere in una società regolamentata, dove l’influenza del caso è minima e dove, se ti succede qualcosa, in fondo in fondo anche tu hai fatto qualcosa per meritarla. Ci piace pensare che se il vicino di casa che magari non ci stava simpaticissimo ha un incidente d’auto magari ha bruciato la precedenza, o chissà a quale velocità stava andando; ci piace pensare che se l’imprenditore vincente finisce in miseria chissà quali “maneggi” avrà fatto o quanti soldi si sarà “mangiato”; se leggiamo sul giornale che una ragazza è stata violentata ci piace pensare che forse anche lei avrebbe potuto evitare di frequentare quelle persone poco di buono o di vestirsi in quel modo.

Non è solo la meschineria dei falliti, che ci porta sempre a solidarizzare di più con i perdenti ai quali poter indirizzare il nostro biasimo o, peggio, la nostra compassione, che non con chi ce l’ha fatta, che con il suo esempio ci dimostra che noi, invece, siamo tra coloro che hanno provato e che hanno fallito. Ci rassicura interpretare il mondo che ci circonda come un universo di certezze, dove l’incerto è relegato in un ruolo di secondo piano, al massimo è sfortuna. Del resto la pubblicità, i politici, i mass media e i life coach non fanno altro che ripetercelo ossessivamente: siamo noi gli artefici della nostra vita ed ogni cosa dipende da noi. 

Invece, forse, non è così. Forse il vicino di casa, dalla guida irreprensibile, è stato travolto da un conducente ubriaco, che andava a forte velocità; forse l’imprenditore è stato irreprensibile sul suo lavoro e nella gestione del suo patrimonio aziendale, ed è stato strangolato dal fisco rapace e dallo Stato infame o dalle pubbliche amministrazioni che prima erano garanzia di pagamenti sicuri e adesso non lo sono più, costringendoti anche loro ad anticipare capitale su capitale fino a quando ne hai anticipato troppo, e sei ormai a fondo; forse la ragazza che è stata violentata era una brava ragazza, ed ha avuto solo la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Applichiamo alla realtà una lente deformante attraverso la quale leggere il presente, perché ci risulta impossibile capire ed accettare il caso, l’eventualità, il fortuito. La morte, ancor più la morte ingiusta, senza spiegazione, ci atterrisce. Ci affanniamo a trovarle un senso, una spiegazione, un perché. Che, molto spesso, non c’è. Non c’è la vita perfetta, non esiste la vita senza alcun rischio: si può morire senza un perché, senza avere colpe, senza aver fatto nulla per essercela andati a cercare. I più fortunati tra noi rinviano ad una vita ultraterrena i peccati di questa vita: verrà, per quanto possa essere stata brutta questa vita, un momento in cui godremo dei frutti di quell’altra, e tutti i patimenti di qui saranno come legna in cascina per il Paradiso di lì. Dico i più fortunati perché in quest’ottica anche i patimenti peggiori diventano un mezzo, e non un fine.


È molto più straziante una vita in cui il dolore non porta a niente, se non al dolore stesso, privo di un qualcosa in cui credere, di un livello superiore al quale aspirare. È proprio questo che cerchiamo di evitare ogni giorno, per avere almeno l'illusione di non morire.

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