martedì 16 settembre 2008

Capitalismo e socializzazione: un confronto


Con la sconfitta delle potenze dell’Asse social-nazionale (prevalentemente Italia, Germania, Giappone) nella seconda guerra mondiale – guerra che, contrariamente a quanto si crede, non è stata condotta dalle potenze cosiddette “plutocratiche” per lodevoli fini umanitari, liberare l’Europa dal nazifascismo, quanto per imporre il modello economico capitalista – ha prevalso il modello economico oggi imperante. Quello capitalista, per l’appunto.
Tale modello economico si basa essenzialmente sulla legge della domanda e dell’offerta
: secondo tale assunto, è la competizione tra i fornitori e/o produttori di uno stesso bene a portare, a lungo andare, ad un significativo progresso; sono esclusivamente i produttori/fornitori e i consumatori/acquirenti a “trattare” le modalità con le quali quel bene deve essere venduto, contrattato, scambiato. Attraverso tale economia di mercato si realizza la fase successiva, vale a dire la fase capitalistica, all’interno della quale diversi soggetti –siano essi società, persone giuridiche o anche privati cittadini – concorrono tra di loro per assumere il monopolio (supremazia economica) all’interno di un determinato ambito economico. Attraverso il capitalismo pertanto il rapporto tra domanda e offerta viene ad equilibrarsi da se, senza alcun intervento della mano statale, con significativi vantaggi per il consumatore, il quale verrebbe a trovarsi nella condizione di poter scegliere diversi prodotti di uno stesso bene a costi monetari altamente competitivi (in quanto il produttore/fornitore del bene ha tutto l’interesse ad ottimizzare la produzione del bene e conseguentemente ad abbassare il costo dello stesso, al fine di guadagnare sempre maggiori fette di mercato). I soggetti privati che possiedono mezzi di produzione o capitali propri possono pertanto impiegare le proprie risorse esclusivamente secondo il proprio interesse e disporre anche dei lavoratori (coloro che, non possedendo mezzi di produzione propri, prestano la propria opera lavorativa dietro corrispettivo pagamento) nel modo che ritengono più opportuno al soddisfacimento dei propri fini. Pertanto lo Stato si configurerebbe, all’interno di questo sistema, come un osservatore il quale, mediante l’istituzione di istituti di controllo super partes (in Italia, per esempio, l’Antitrust) non avrebbe alcun potere di intervento nel sistema economico capitalistica che non sia quello di impedire il monopolio e le truffe ai propri cittadini o garantire l’esecuzione contrattuale tra soggetti diversi.
Senza perderci in ulteriori digressioni, i sostenitori del capitalismo sostengono generalmente che, mediante questo sistema economico, i vantaggi sono molteplici: accesso ad una vasta selezione di beni da parte di un sempre maggior numero di persone (acquirenti/clienti), generale miglioramento delle condizioni di vita, maggiori possibilità di lavoro in seguito all’iniziativa privata e via dicendo.
In tal senso l’aumento impressionante dell’immigrazione, che ha portato le nazioni europee ad una perdita sostanziale delle proprie identità, delle proprie tradizioni, nonché ad un generale e preoccupante senso di malessere e di insicurezza da parte della popolazione autoctona europea, va visto esattamente in quest’ottica: l’abbattimento di ogni frontiera, di ogni barriera, di ogni confine geografico, politico, nazionale e spirituale si inquadra non solo nell’ottica mondialista e massonica, al fine di poter più facilmente sottomettere un popolo di bastardi meticci piuttosto che un popolo di patrioti, ma anche nel favorire, fino alle più estreme conseguenze, la libera circolazione di uomini e merci per favorire l’economia capitalistica.
E’ interessante notare come questa teoria economica, sebbene al giorno d’oggi sia assunta dalla maggior parte delle nazioni del mondo per regolamentare il proprio mercato economico interno ed estero (tanto che oggi si può affermare senza timore di smentita che ben pochi sono gli stati all’interno dei quali non sia applicata un’economia di Stato capitalista), non è assolutamente la dottrina economica per eccellenza: il capitalismo, come si è già avuto modo di dire, è soltanto una teoria che si è imposta definitivamente solo in seguito all’evento bellico della seconda guerra mondiale.
Prima del 1940 ben altre erano le teorie economiche che guidavano le scelte degli stati europei. Mentre in Inghilterra o negli Stati Uniti imperversava la rivoluzione industriale, nazioni come la Germania Nazionalsocialista o l’Italia Fascista mostravano, con le loro scelte economiche, una straordinaria capacità di ripresa economica dalle gravi difficoltà ereditate in seguito al primo conflitto. L’Italia, infatti, sarà danneggiata dalla crisi del ’29 molto meno di tanti altri stati europei, e ciò non solo per la maggior arretratezza economica ed industriale del nostro Stato nei confronti dell’Europa (gap che, comunque, verrà velocemente colmato), come tanta propaganda antifascista cerca di far credere, ma anche per le misure economiche prese dal Fascismo mussoliniano sin dai primi anni di governo; tant’è vero che il New Deal di Roosevelt riprenderà molte indicazioni dell’Italia del tempo, tanto da spingere Mussolini ad affermare: "Noi queste cose in Italia le facciamo già da dieci anni".
Sostanzialmente la dottrina economica fascista partiva da basi certamente diverse rispetto a quelle capitalistiche. Per il Fascismo, infatti, la politica economica doveva servire, fondamentalmente, ad un immediato e generale miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini senza escludere la componente fondamentale e il fine ultimo di tutto il processo economico: il benessere sociale: da qui il termine di socializzazione. Benché solitamente si tenda ad identificarlo come una ideologia estremista e distruttrice, completamente incapace di qualunque azione istruttiva o propositiva e di qualunque via di mezzo, il Fascismo italiano si pose immediatamente come “terza via” tra i due “estremi” economici, ovvero capitalismo e comunismo. Una terza via che mediasse efficacemente fra le contraddizioni dei due sistemi, per riprendere esclusivamente i vantaggi sia di una economia di mercato, completamente centralizzata, statalista e dirigista (la quale provocava, è bene ricordarlo, decine e decine di milioni di morti in Russia), sia di un’economia liberista e capitalista (la quale portava, e ha definitivamente portato a tutt’oggi, alla definitiva disgregazione dello stato sociale inteso come vita politica, economica e culturale nazionale). La soluzione socialista si imponeva ai Fascisti come punto di incontro, di sintesi e di mediazione tra le esigenze individuali e quelle collettive; questo porta a considerare il lavoratore non più come una merce o come un prodotto del capitalismo stesso, da poter quindi utilizzare secondo le regole dettate dal mercato e da poter scambiare o valutare secondo la logica capitalistica (più capitale, meno lavoro), ma come una componente fondamentale accanto ad imprenditori pubblici, imprenditori privati, tecnici e fornitori di capitale (sia esso capitalista e non); tale obiettivo di sintesi doveva essere raggiunto mediante l’essenza corporativista: col corporativismo si garantisce a qualunque categoria che partecipa della vita nazionale (imprenditori, lavoratori, tecnici, pensatori etc.) la propria rappresentatività politica che veniva quindi salvaguardata dallo Stato, il quale diventava, pertanto, arbitro e garante dell’attuazione della socializzazione; facendo si quindi che il lavoratore partecipi alla vita nazionale, o meglio, alla gestione della cosa pubblica, lo si responsabilizzava maggiormente in un’ottica meritocratica.
Tali principi vennero enunciati nella Carta del Lavoro del 1927 e subiranno un ulteriore evoluzione nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, allorquando il Fascismo repubblicano emanerà altre direttive che rappresentavano un’innovazione incredibile nell’ordinamento sociale e lavorativo non solo italiano, bensì europeo, che avrebbero messo in seria difficoltà i comunisti.
A tutto ciò si collochi quello Stato sociale che il Fascismo seppe creare dal nulla, in un Paese uscito abbastanza malconcio dal primo conflitto mondiale, volto a tutelare prevalentemente il lavoratore e le categorie svantaggiate in generale.
Il Fascismo, pertanto, seppe prendere spunto non solo dalla realtà e dalle dottrine economiche degli anni Venti e Trenta, ma addirittura rinnovò completamente - in senso “socialista” - il quadro corporativo già elaborato negli anni passati, e questo pochi mesi prima della sua caduta: dimostrazione ne siano i 18 punti di Verona. Una caduta, è bene ricordarlo, che avvenne manu militari, e non certo perchè il Fascismo si trovò impreparato ad affrontare quel periodo storico. A dimostrazione di una realtà politica e culturale come mai se ne sono viste in tutta la Storia d'Italia. che neanche le bombe hanno saputo mettere a tacere.
Tutto quanto sopra detto può considerarsi, semza ombra di dubbio, come il lascito più significativo del Fascismo storico alla società del dopoguerra, fino ai giorni nostri.
Chessa Andrea
Vice Segretario Nazionale Isole - Movimento Facismo e Libertà

Nessun commento: