domenica 19 ottobre 2008

Riscoprendo la Storia sapremo un giorno trovare motivi di orgoglio

Dal Blog del Segretario Nazionale MFL Carlo gariglio

LETTERA A MARZIA
Scritta e pubblicata da Alberto Giovannini nel 1959
Marzia carissima, domenica l’altra, al termine della puntata televisiva sui “Cinquant’anni di vita italiana”, in cui si descrivevano in termini raccapriccianti le vicende della Repubblica Sociale Italiana, tu hai chiesto, un po’ incredula e un po’ preoccupata: “-Ma papà era con quelli?…”. Sì Marzia, il tuo papà era con “quelli”, con i cattivi e perché, nella tua mente bambina, non rimangano dubbi ti dice, ora, di essere orgoglioso di esserci stato, e ti assicura che, se dovesse tornare indietro nella vita, e trovarsi, con l’esperienza d’oggi, nelle identiche situazioni di allora, ci tornerebbe.I tuoi tredici anni scarsi ti permettono di afferrare e assorbire il succo velenoso di certe storie, ma ti impediscono di poter capire la storia. Tuttavia voglio dirti, non tanto per oggi, ma per il tempo abbastanza prossimo in cui alla storia, per forza di studi, dovrai avvicinarti, che ciò che la Televisione ha trasmesso (forse col recondito desiderio di far disprezzare centinaia di padri e di madri dai figli ignari) delle tragiche vicende Italiane tra il 1943 e il 1945, altro non è che il concentrato della vigliaccheria conformistica che impera nella nostra Patria.Tu non sai, cara Marzia, che molti tra quanti vorrebbero condannare tuo padre, in quanto colpevole di un delitto che gli Italiani difficilmente perdonano, quello della coerenza, vi sono coloro che gli furono Maestri e, quindi, coi loro scritti lo spinsero sulla strada che doveva condurlo nella Repubblica Sociale Italiana: e vi sono a migliaia, a centinaia di migliaia, a milioni i suoi compagni di un tempo, quelli cioè che dopo aver militato con lui, nel fascismo e “sotto” Mussolini, si squagliarono, stridendo alla maniera dei topi, non appena la barca incominciò a fare acqua. In sostanza le storie che la Televisione ha, dapprima ipocritamente e poi maramaldescamente, raccontate alla tua fantasia di bambina sensibile, avevano due scopi ben precisi: il primo di giustificare la dittatura del “ventennio”, il secondo di scaricarne tutte le responsabilità, morali prima ancora che politiche, sui vinti della Repubblica Sociale Italiana. Perché vedi, Marzia, se in Italia non ci fosse stata la Repubblica, e la storia si fosse fermata al 25 luglio 1943, i “responsabili” sarebbero parecchi. Nessuno o quasi si salverebbe. Oggi tu sai che Presidente dei Consiglio è l’Onorevole Segni, e se ascolterai la radio saprai ch’egli è un patriota e un antifascista, un sincero democratico. Appunto perché, per sua fortuna, c’è stato l’8 settembre 1943, che ha permesso a Segni di far dimenticare il giuramento di fedeltà al regime fascista e, probabilmente, il distintivo fascista portato all’occhiello, come professore Universitario. Ti dico Segni, perché è il nome del giorno, ma quando ascolterai altri nomi, e leggerai di altre benemerenze, di Fanfani o di Ingrao, di Taviani o di Lajolo, di Pella o di Achille Corona, di Tambroni o di Martino, di tutti o quasi gli uomini politici Italiani dispersi nei molti partiti, ricorda che la situazione è sempre la stessa. Per questo le storie che ti hanno raccontate “visivamente” alla Televisione, nella prima parte erano rivolte a giustificare il fascismo, e in certo qual modo, a farlo perdonare agli italiani e agli stranieri. Le proteste dei comunisti e degli antifascisti professionali, durante le prime puntate del racconto, erano in parte giustificate, ma fiacche, forse anche perché i protestanti avevano ottenuto assicurazioni sul galoppo finale del programma. E d’altro canto, ad esempio, l’onorevole Arrigo Boldrini, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani, come avrebbe potuto protestare contro il filofascismo della TV fino al 25 luglio, se fino a quell’epoca egli era Centurione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale? Vedi, Marzia, quel che avvenne in Italia dopo l’8 Settembre ha rappresentato la più dolorosa tragedia della tua Patria, ma è servito anche a dare un falso passaporto di democrazia alla maggior parte dei vigliacconi che oggi comandano. Quante cose, potrei raccontarti, figlia mia, di quei tempi tragici. Basterebbe ti facessi storia, e potrei fartela, di molti che oggi vanno per la maggiore con l’aureola degli eroi, per farti ridere o per farti comprendere perché, in definitiva, tuo padre, ch’è un uomo e non un topo, è stato con “quelli” e non con “questi”. Ti hanno fatto vedere tante cose tristi, tanti morti, tante distruzioni, ti hanno rattristata e forse, ti hanno fatto inorridire. Ma non è tutto. Sappi, bambina, che molti di quei lutti sono venuti “dopo”, sono cioè scaturiti da una reazione; ma sappi, soprattutto, che la guerra civile scaturì dall’imbecillità e dalla pavidità di una classe dirigente che dopo aver servito (servito è il termine esatto) il fascismo, e dopo essere stata complice dell’entrata in guerra, ha subito la pressione dell’antifascismo “resuscitato” dopo il 25 luglio per realizzare, nel più disastroso dei modi, il più criminoso rovesciamento di fronte che la storia ricordi. Hai visto sui teleschermi, la strage di trecentotrenta italiani alle Fosse Ardeatine? Ebbene, ricorda, bambina, che essa fu dovuta a rappresaglia perchè in Roma, dichiarata “città aperta”, ventisei soldati tedeschi disarmati furono uccisi dallo scoppio d’una bomba posta a tradimento dai comunisti. E che gli autori dell’attentato, invitati a costituirsi per evitare la rappresaglia sui detenuti, si dettero alla macchia per poter essere in grado, poi, di entrare al Parlamento italiano come deputati del PCI e come eroi della “resistenza”.E’ una favola truce e turpe, quella che ti hanno presentata, figlia mia; ma incompleta. Lascia, perciò, che te la racconti anch’io, che te la completi. C’era una volta un amico del tuo papà, aveva ventotto anni, era onesto, sincero, povero e disinteressato. Intendeva andare verso “il popolo” perché al popolo voleva bene: si chiamava Eugenio Facchini, e ai primi di ottobre del 1943, quando Bologna era ancora tranquilla, fu nominato Segretario federale della città. Tre mesi dopo fu massacrato a colpi di rivoltella (nella schiena) mentre stava andando a colazione alla mensa dello studente. Fu il primo morto della guerra civile a Bologna, e dalla sua ingiusta morte, che non dava gloria o vantaggio a nessuno, vennero le prime sanguinose reazioni. C’era una volta un vecchio professore universitario che mai si era occupato di politica, che dal fascismo non aveva ottenuto né onori, né cariche, né guadagni, era un antico nazionalista che aveva sentito la necessità di “aderire” alla RSI e, quindi, di reagire alla resa incondizionata di Cassibile e al rovesciamento di fronte che avevano disonorato la sua Patria. Era un uomo onesto, buono, che non aveva mai fatto del male a nessuno e fatto del bene a tutti, era uno studioso di fama mondiale. Si chiamava Pericle Ducati, e fu massacrato a revolverate mentre, con un libro sotto il braccio, tornava a casa. C’era una volta, la favola è lunga, Marzia!, il più grande filosofo contemporaneo, come un giomo saprai; lo spirito forse più alto che abbia avuto l’Italia in questo secolo, e fu ucciso, mentre rientrava in famiglia, per la somma di tremila lire. Si chiamava, pensa, Giovanni Gentile. C’era una volta un Poeta, cieco di guerra, cieco a ventisei anni, che quando tutto crollava aveva ritenuto suo dovere servire i Mutilati, cioè coloro i quali avevano offerto, come lui, i doni più preziosi dell’esistenza alla Patria. Fu ucciso come un cane, a revolverate, in mezzo alla strada, senza una ragione e senza pietà. Si chiamava Carlo Borsani. Tra i tanti nomi che hai ascoltato alla Televisione, questi non li conosci; tra i tanti funerali che hai veduto questi sono mancati; tra i molti orrori questi non sono stati menzionati. Tu hai veduto tante bandiere tricolori che sventolavano, gioiose alla fine della guerra civile, ma non ti hanno fatto vedere, per tua fortuna, il carnaio approntato in una piazza di Milano, dove Colui che tutti avevano servito e riverito, e che non aveva voluto fuggire perchè, se lo avesse voluto, come i maramaldi della Televisione affermano, avrebbe sempre avuto un aereo sul quale imbarcarsi, era appeso per i piedi, a ludibrio di una plebe imbestialita e a eterna vergogna dell’Italia moderna. Non ti hanno fatto vedere, né ti hanno detto, Marzia, che mentre quelle bandiere sventolavano e quelle “formazioni” venivano passate in rassegna dai “vittoriosi”, migliaia e migliaia di uomini, donne, giovanotti, fanciulli venivano massacrati; che in una caserma di Vercelli settanta giovani disarmati venivano schiacciati vivi e ridotti poltiglia, per ordine e sotto gli occhi di un eroe della resistenza, il ragioniere Carlo Moranino, divenuto più tardi deputato al Parlamento Italiano per questa meritoria impresa. Questo, figlia mia, è il completamento della favola che gli amanuensi della Televisione italiana hanno approntato, per falsare la storia, per meritare gli elogi delle classi dirigenti e per far sì che i figli, intimamente, disprezzassero i padri. Ho dovuto raccontartelo fino in fondo, e dirti che cosa fosse lo “spirito della resistenza” perché quella tua frase: “Ma papà era con quelli?” mi ha dolorosamente colpito. Vedi bambina, io, in tanti anni e in tante vicende, non ho mai odiato nessuno; ma quando ho appreso di quella tua domanda ho sentito, per la prima volta, Dio mi perdoni, lo stimolo dell’odio. D’ora in avanti, Marzia, ti farò io la storia: e ti dirò chi veramente era Mussolini, cosa fu il fascismo e cosa fummo noi, vinti, protagonisti dell’ultima e disperata avventura. Non credevo, dopo tanti anni, quando tutto doveva essere superato e dimenticato, di dover tornare a questo. Ma tu devi sapere, voglio che tu sappia; voglio che quando sarai grande possa insegnare ai tuoi figli le cose che ti dirà tuo padre, perché “questi” l’hanno voluto, me l’hanno imposto. Voglio dunque che tu possa essere orgogliosa di me, anche e principalmente se ero con “quelli”. Sì, ero con “quelli”: ero con Mussolini, con Giovanni Gentile, con Pericle Ducati, con Goffredo Coppola, con Francesco Ercole, con Giotto Dainelli, con Marinetti. E un giorno saprai, bambina, chi erano costoro, e vedrai che erano qualcosa di più e qualcosa di meglio dei Pani, dei Cadorna, dei Moranino; potrai renderti conto che anche tuo padre era un Italiano e per di più un Italiano coerente, che ha saputo subire fino in fondo la tragedia (che è storia) della sua Patria, anche se questa colpa gli vieta oggi di poter “rettificare” le storie della Rai-Tv, compilate e realizzate dal suoi antichi camerati, trasformatisi in maramaldi.
Tuo padre

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Queste sono le parole con cui Piero Operti, antifascista e partigiano, difese i suoi giovani studenti universitari reduci dell’esercito repubblicano, nell’immediato dopoguerra.

Si, O SIGNORI, io son quel desso. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”. Appartenni alle Forze Armate della RSI. Voi vedete in me la sentina di tutte le colpe, il ricettacolo di tutti gli errori, la pattumiera di tutte le iniquità. Infatti tenni fede alla parola data alla Patria quando la vostra saggezza aveva, quella parola, per chiffon de papier; credetti quando tutto comandava lo scetticismo; quando l’imboscamento veniva aureolato di gloria volli continuare a combattere. Son colui che distinguete col nome di “Repubblichino”. Fui soldato dell’onore - sostantivo maschile derivato dal latino “honor, honoris” della terza declinazione regolare - e mentre voi radiavate dal dizionario questo vocabolo come contrastante con l’eclettismo della itala gente dalle molte vite e dalle molte casacche, ricordai che i Romani divinizzarono l’ONORE e il VALORE e li venerarono in un medesimo tempio; e mentre la Fortuna giungeva a voi sulle ali dei «Liberators» io ricordai che i Romani, dopo la rotta di Canne, edificarono un tempio alla Fortuna Virile, e che conferendo maschiezza alla fortuna essi ne fecero non un dono del caso bensì una conquista del valore. Perciò il 5 giugno 1944, quando voi alzavate inni di giubilo per la «liberazione» di Roma, io piansi le più cocenti lagrime della mia vita e invidiai i camerati del «Barbarigo» caduti sulla via dell’Urbe opponendosi con le bombe a mano, come il Maggiore Rizzati, all’avanzata degli «Sherman» E, mentre a Trieste voi gridavate: «Meglio gli slavi che i fascisti» e Radio Bari annunziava l’avanzata dei partigiani jugoslavi lungo la costa istriana, chiamandola «litorale sloveno», io sostenni nella selva di Tarnova, contro le bande dì Tito e gli ausiliari di Togliatti, un aspro combattimento nel quale quasi tutti i miei compagni del «Fulmine» persero la vita. Fui soldato dell’Italia ritornata espressione geografica e sperai di chiudere per sempre gli occhi per non vedere la sua plebe d’ogni rango sciamare intorno ai vincitori, offrendogli i suoi fiori e le sue donne e azzuffandosi per raccattar le sigarette gettate dall’alto dei carri. Quando, infranta la linea gotica, nelle vostre città voi apprestavate archi di trionfo e vi gettavate ai linciaggi, io sparai sul Senio sino alla mia ultima cartuccia e coi camerati superstiti del «Lupo» ricevetti dal nemico l’onore delle armi, come Kosciusko a Macovje, qualcuno in quel luogo e in quell’ora pronunziò le parole: «finis Italiae». Sono, o signori, il temerario ribelle alle suggestioni della liberazione e della capitolazione. Rimasi al fianco del tedesco perché la guerra non è un giro di valzer e con lui l’avevo incominciata, perché sapevo ch’egli ci era nel presente e ci sarebbe stato nel futuro meno nemico degli alleati, e perché prevedevo che costoro, essendo buoni sportivi, ci avrebbero in qualunque caso meglio giudicati e trattati se non piantavamo in asso il compagno di squadra nell’ora più dura della partita. Per questo compagno avevo la stima che non può negarsi al valore e che schiettamente egli ricambiava a tutti i buoni soldati. Come in Grecia, in Russia, in Africa rimasi al suo fianco in Italia e accanto a lui sanguinante camminai nel mio sudore e nel mio sangue avendo di fronte lo schieramento del nemico, sulla R.A.F., alle spalle le fucilate dei partigiani; e spesso dovevo chiedere a lui le munizioni, essendo le mie inservibili perché sabotate nelle fabbriche. Venuto il mio turno, rifiutai la licenza, sapendo che al paese mi attendeva l’agguato, e volevo morire contrastando all’invasore la mia terra e non assassinato da un italiano. MI STRINSI AL CUORE L’ULTIMO LEMBO DELLA BANDIERA, quando voi ne davate i brandelli ai negri perché li adoperassero come pezze da piedi. Nulla mi sembrò più orribile del proclamarsi vincitori in una patria disfatta e bruciai la mia anima nel rogo dell’Italia delle cui ceneri avete fatto il Vostro Piedistallo. Ebbi l’inaudita protervia di vedere fra i ciechi, di udire fra i sordi, di camminare fra i paralitici, di piangere sulla fine della mia Patria mentre voi tripudiavate sul principio della vostra trionfale carriera. Risparmiato dalla guerra e dalla guerriglia, scampato alla ecatombe liberatoria, sopravvissuto a Coltano e alla galera, vengo dinanzi a Voi, o signori, a confessare il cumulo dei miei delitti. So bene che nessun castigo da Voi inflittomi potrà adeguarsi ad essi; valga nondimeno ai vostri occhi la mia prontezza a pagare il fio di tanti misfatti.«Molto deve esserle perdonato perché molto ha amato», disse della Maddalena il Redentore, e giustamente disse, poiché la donna piangeva sul suo passato; così giustizia vuole che avendo molto amato nulla a me sia perdonato, poiché il mio cuore, duro come una pietra, è insensibile al pentimento. E’ questa in verità, o Signori, la mia ultima colpa, più grave da sola che tutto il carico delle colpe passate: «NON SONO PENTITO».Ma avendo militato nell’opposta trincea io non posso pronunciare questo discorso e perciò lo passo a qualche antico avversario il quale mi sia oggi fratello nell’amore per l’Italia, affinché se ne serva quando inciampa in quella domanda che io ho incontrata».
DECIMA COMANDANTE
Ottobre 1997

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