sabato 8 marzo 2014

Verità storiche e sciacalli

Pubblicato sul mensile Il Lavoro Fascista - novembre 2013

Carlo Gariglio

Nel numero dello scorso mese abbiamo parlato della morte del Capitano Erich Priebke e del gran quantitativo di sciacalli che si sono lanciati sul suo cadavere ancora caldo; abbiamo anche pubblicato la sua ultima intervista – testamento, nella speranza che le parole di un centenario prossimo a presentarsi davanti al suo Dio potessero aiutare qualche cervello all’ammasso a rinsavire e riprendere, quindi, a funzionare.
In questo numero, invece, cercheremo di evidenziare ulteriormente l’infamia di quanti stravolgono la Storia, le Leggi e la memoria a loro uso e consumo, cancellando i crimini dei vincitori (e soprattutto quelli dei traditori della Patria svenduti a questi ultimi) ed inventando di sana pianta atrocità che sarebbero state commesse dai perdenti. Avvalendomi di una semplice ricerca su internet, illustrerò quanto prevedono le Leggi di guerra in materia di combattenti irregolari e di rappresaglie, volgendo lo sguardo anche a quelle dei cosiddetti “buoni”, cioè la banditaglia che la Storia ricorda come “gli alleati”.
Di norma, i delitti dei partigiani, quando è impossibile negarli, vengono liquidati come eccessi di singoli individui e reazioni alla “barbarie” criminale fascista e nazista il che sottintende che era giusto e comprensibile che i partigiani reagissero in quel modo alle ‘barbare‘ esecuzioni di combattenti per la “libertà” e alle rappresaglie naziste.
Come abbiamo già visto, uno degli esempi più ricorrenti nella liturgia resistenziale è l’eccidio delle Fosse Ardeatine; anche e soprattutto in questo caso, si tratta di un ribaltamento totale della verità.
Per dare un giudizio di quanto accaduto in maniera imparziale, l’unico metodo è quello di affidarsi alle leggi internazionali. Nel caso specifico alla Convenzione dell’Aja vigente a quell’epoca e alle successive conclusioni del Tribunale di Norimberga.
Cominciamo per ordine.
L’art. 42 della Convenzione dell’Aja dice testualmente:
La popolazione ha l’obbligo di continuare nelle sue attività abituali astenendosi da qualsiasi attività dannosa nei confronti delle truppe e delle operazioni militari. La potenza occupante può pretendere che venga data esecuzione a queste disposizioni al fine di garantire la sicurezza delle truppe occupanti e al fine di mantenere ordine e sicurezza. Solo al fine di conseguire tale scopo la potenza occupante ha la facoltà, come ultima ratio, di procedere alla cattura e alla esecuzione degli ostaggi“.
Basta questo articolo, da solo, a togliere qualsiasi parvenza di legittimità alla cosiddetta resistenza.
Secondo il diritto internazionale (Art. 1 della convenzione dell’Aia del 1907) un atto di guerra materialmente legittimo può essere compiuto solo dagli eserciti regolari ovvero da corpi volontari i quali rispondano a determinati requisiti, cioè abbiano alla loro testa una persona responsabile per i subordinati, abbiano un segno distintivo fisso riconoscibile a distanza e portino apertamente le armi.
Ciò premesso, si può senz’altro affermare che gli attentati messi in atto dai partigiani fossero atti illegittimi di guerra, essendo stati compiuti da appartenenti a un corpo sì di volontari che però non rispondevano ad alcuno dei sopra citati requisiti.
Consapevole di questo, il governo del Sud, per mezzo di Badoglio, aveva diramato l’ordine a tutti gli uomini della resistenza di evitare di fare attentati nelle città, proprio per evitare quel tipo di prevedibili (e ripeto, per il nemico e per le Leggi internazionali, legittime) rappresaglie che avrebbero coinvolto anche civili.
Una pietra tombale su questo argomento è stata poi posta dalla Sentenza del Tribunale Supremo Militare del 1954; nel processo contro alcuni ufficiali della “Legione Tagliamento”, ricorrenti contro la sentenza del Tribunale di Milano che aveva tra l’altro negato che la R.S.I. avesse costituito un governo di fatto e che, pertanto, i suoi ordini potessero ritenersi legittimi; il Tribunale Supremo Militare pronunziò una sentenza di eccezionale importanza (26 aprile 1954, Presidente Buoncompagni, Relatore  Ciardi) che ha affrontato e risolto, con alto senso giuridico e storico, le più dibattute ed ardenti questioni in tema di collaborazionismo. La suddetta Sentenza, fra l’altro, recita quanto segue:
“Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale militare, per l’espresso disposto dell’articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n. 93, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono”.
Stabilito che l’attentato di via Rasella, così come qualsiasi altro attentato dei sedicenti partigiani (i quali, ai sensi della Sentenza del 1954, data la loro caratteristica non legittimi belligeranti, dovrebbero essere chiamati banditi), costituì un atto illegittimo di guerra, occorre accertare, per le diverse conseguenze giuridiche che ne derivano, quale fosse la posizione degli attentatori nei confronti dello stato italiano in quel preciso momento (e del governo del Sud Badoglio, che aveva diramato l’ordine a tutti gli uomini della Resistenza di evitare di fare attentati nelle città, proprio per evitare quel tipo di prevedibili (e ripetiamo, per il nemico legittime) rappresaglie che avrebbero coinvolto anche civili).
Solo successivamente lo Stato considerò come propri combattenti i partigiani che avessero combattuto contro i tedeschi.
Con decreto Legge n. 96 del 25 aprile 1944 (qualche giorno dopo l’attentato di via Rasella) e col successivo decreto Legge n. 194 del 12 aprile 1945, lo Stato italiano dichiarò non punibili (amnistiati) gli atti compiuti dai partigiani. Il che equivale a dire che li riteneva illegittimi, tanto da sentire la necessità di due appositi decreti per amnistiarli.
Veniamo ora alle Fosse Ardeatine.
Secondo l’Art. 2 della convenzione di Ginevra del 1929 non potevano essere utilizzati per una rappresaglia né feriti né prigionieri di guerra e neppure personale sanitario.
Il Tribunale di Norimberga d’altra parte affermò:
Le misure di rappresaglia in guerra sono atti che, anche se illegali, nelle condizioni particolari in cui esse si verificano possono essere giustificati: ciò in quanto l’avversario colpevole si è a sua volta comportato in maniera illegale e la rappresaglia stessa è stata intrapresa allo scopo di impedire all’avversario di comportarsi illegalmente anche in futuro“.
E per finire la parte legale del discorso ecco le condizioni che ammettevano una rappresaglia, sia per il diritto internazionale, sia per la interpretazione data dal Tribunale di Norimberga:
1. Dopo attacchi contro la potenza occupante, laddove la rappresaglia si rendesse necessaria dal punto di vista militare. La rappresaglia serviva innanzi tutto per impedire ulteriori delitti commessi dall’avversario. L’ordine dell’alto comando dell’esercito di data 5 giugno 1941 imponeva “rappresaglie severe” quando esse si rendessero necessarie per la sicurezza della truppa che occupava il territorio.
2. Quando le ricerche degli autori di atti illeciti avessero dato esito negativo. Anche l’ordine Barbarossa (13 maggio 1941) contrario al diritto internazionale consentiva l’arresto collettivo di ostaggi “quando le circostanze non consentano una rapida individuazione degli autori di un fatto criminoso”.
3. Che esse fossero ordinate da ufficiali superiori.
4. Che tenessero conto della proporzionalità. Nel citato caso n. 9 il tribunale di Norimberga confermò che “misure di ritorsione, qualora consentite, debbono essere proporzionate al fatto illecito commesso”. Questo è un punto di particolare importanza dal momento che si tratta di vite umane. Nel caso n. 7, cioè nel processo a carico dei generali List, von Weichs e Rendulic tenutosi nel 1948, la proporzione accettata dal tribunale di Norimberga come equa era 10:1, vale a dire fucilazione di dieci ostaggi per ogni soldato tedesco ucciso da un atto terroristico.
5. Che la cerchia delle persone colpite dalla rappresaglia fosse in qualche modo in rapporto col reato commesso a danno delle forze occupanti. Che gli ostaggi o le persone destinate alla rappresaglia fossero tratte dalla cerchia della resistenza. Cosa questa che venne applicata anche dai tribunali postbellici francesi.
Non venivano stabiliti i criteri per la scelta degli ostaggi, ma la scelta stessa era affidata a criteri di discrezionalità.
Il Tribunale di Norimberga a tale proposito, afferma:
Il criterio discrezionale nella scelta può essere disapprovato ed essere spiacevole, ma non può essere condannato e considerato contrario alle norme del diritto internazionale. Deve tuttavia esserci una connessione fra la popolazione nel cui ambito vengono scelti gli ostaggi e il reato commesso(quindi il luogo dello attentato e/o l’appartenenza a gruppi clandestini che compiono atti terroristici).
Ricordiamo agli immemori che il cosiddetto “tribunale” di Norimberga fu la più grande farsa giuridica e criminale della Storia, ove si pretese di affermare che il massacro degli ufficiali polacchi a Katyn fosse opera dei Tedeschi (fatto notorio, supportato da centinaia di testimonianze e perizie medico legali), nonché “prova della bestialità della Wehrmacht”,oltre che accettare come fatti reali che ad Auschwitz fossero morti 4 milioni di ebrei, che i tedeschi utilizzassero gli ebrei per produrre sapone e che le cosiddette confessioni dello SS – Obersturmbannführer  Rudolf Franz Ferdinand Höss”, comandante di Auschwitz, certificanti i 2.500.000 di gasati”, OGGI pubblicamente ammesso ottenute con la tortura fisica e psicologica dagli stessi torturatori, fossero veritiere… Indi, il fatto che quel cosiddetto tribunale abbia considerato “eque” e legittime le rappresaglie germaniche, costituisce di per sé una prova schiacciante di questa verità storica e giuridica.
Il diritto alla rappresaglia venne accolto anche dalle forze britanniche nel paragrafo n. 454 del “British Manual of Military Law“. Le forze americane a loro volta prevedevano la rappresaglia nel paragrafo n. 358 dei “Rules of Land Warfare” del 1940. Per le truppe francesi, l’allegato I alle istruzioni di servizio del 12 agosto 1936 consentiva all’Art. 29 il diritto di prendere ostaggi nel caso in cui l’atteggiamento della popolazione fosse ostile agli occupanti, e il successivo Art. 32 prevedeva la esecuzione sommaria degli stessi ostaggi se si fossero verificati attentati.
Nel 1947 i magistrati militari britannici, nel processo a carico di Albert Kesselring, commentarono che nulla impediva che una persona innocente potesse essere uccisa a scopo di rappresaglia“. (F. J. P. Veale, Advance to barbarism (ed. The Mitre Press, Londra 1968) e dello stesso autore, Crimes discretely veiled (ed. IHR, Torrance, California, 1979)
Interessante anche ricordare alcune rappresaglie alleate, minacciate o realizzate:
· A Stoccarda il generale francese Lattre de Tassigny minacciò la uccisione di ostaggi tedeschi nel rapporto di 25:1 se fossero stati uccisi soldati francesi.
· A Marcktdorf erano previste fucilazioni di ostaggi nel rapporto di 30:1.
· A Reutlingen i francesi uccisero 4 ostaggi tedeschi affermando che era stato ucciso un motociclista che in realtà era rimasto vittima di un incidente.
· A Tuttlingen, i francesi annunciarono il 1° maggio 1945 che per ogni soldato ucciso sarebbero stati fucilati 50 ostaggi. (L’originale del manifesto appare nel libro di Spataro che citiamo sotto)
· Ad Harz le forze americane minacciarono di esecuzione punitive nel rapporto di 200:1.
· Quando il generale americano Rose, nel marzo del 1945, rimase vittima di una imboscata, gli americani fecero fucilare per rappresaglia 110 cittadini tedeschi. (In realtà Rose era stato ucciso in un normale combattimento, soldati contro soldati e la imboscata è pur sempre un atto di guerra se si portano le mostrine e la divisa).
· A Tambach, presso Coburg, in data 8 aprile 1945 il tenente americano Vincent C. Acunto fece fucilare 24 prigionieri di guerra tedeschi e 4 civili; accusato di omicidio venne assolto.
· A Berlino l’Armata Rossa che l’occupava minacciò fucilazione di ostaggi nel rapporto di 50:1. Il testo del comunicato era il seguente: “Chiunque effettui un attentato contro gli appartenenti alle truppe d’occupazione o commette attentati per motivi di inimicizia politica, provocherà la morte di 50 ex appartenenti al partito nazista“. (Pubblicato sul quotidiano Verordnunsglatt di Berlino in data 1 luglio 1945).
· A Soldin, Neumark, i russi andarono al di là di questa cifra: furono fucilati 120 cittadini tedeschi perché un maggiore russo era stato ucciso nottetempo da una guardia tedesca (che poi risultò essere stato ucciso perché il russo gli stuprò la moglie (Mario Spataro, Dal caso Priebke al nazi gold, Ed. 7° Sigillo, vol. 2, Pag. 913).
· Una delle più gravi fu la strage di Annecy del 18 agosto 1944, in un campo di prigionieri tedeschi gestito da americani e francesi; proporzioni di 80:1(Ib).
· A Bengasi, gli inglesi di Montgomery contro gli italiani applicarono quella del 10:1 (Ib.).
 
Tecnicamente possono essere equiparate ad azioni di rappresaglia anche gli stupri di massa eseguiti come vera e propria tattica di guerra decisa a tavolino nei confronti della popolazione civile italiana da parte degli Alleati. Ad esempio, nell’area del Cassinate e del Sorano furono violentate sessantamila persone.
Il generale Alphonse Juin, a capo  del corpo di spedizione francese composto da circa 130 mila unità, per lo più formate da marocchini, algerini, tunisini e senegalesi, diede ai suoi soldati cinquanta ore di “libertà”, durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione denominate appunto marocchinate. Prima della battaglia il generale avrebbe fatto alla truppa questo discorso:
«Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete».
A seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da sifilide, gonorrea ed altre malattie veneree, e solo l’intervento della penicillina americana escluse una vasta epidemia in quelle zone. C’è da dire che le violenze non si limitarono alle donne: ci furono centinaia di uomini e ragazzi sodomizzati e alcuni impalati vivi. Le violenze si estesero talvolta a bambine di 7 – 8 anni per arrivare a vecchie di 80 anni e più.
Ovviamente,  né lo schifoso generale francese, né qualcuno dei suoi sottoposti, né nessun altro autore di rappresaglie facente parte degli eserciti alleati, fu mai sottoposto a processi, né tanto meno condanne!
Ma torniamo alle Fosse Ardeatine.
Coerentemente con le Leggi militari già citate, nessun Tribunale italiano fu infatti in grado di imputare a Kappler l’atto di rappresaglia; la condanna di quest’ultimo, infatti, si basò solo e soltanto sul numero delle vittime. Nelle Fosse Ardeatine furono infatti ritrovati i corpi di 345 persone e non i 330 che ci si aspettava. Dieci di quelli in soprannumero potevano essere giustificati con la morte di un ulteriore soldato tedesco avvenuta prima della rappresaglia, gli altri cinque no.
Per inciso, se si fossero aspettati alcuni giorni, le persone giustiziate legalmente sarebbero state molte
di più, visto che nei giorni successivi morirono ulteriori soldati tedeschi, portando il totale dei morti a 46.
Per completezza aggiungo che non fu mai trovata la lista di coloro che dovevano essere fucilati e che, di sette corpi, non si riuscì a stabilire l’identità.
Dunque, è bene ribadirlo con forza per sottolineare l’infamia del complotto giudaico – comunista a danno di Priebke: nel 1948 ebbe luogo il processo per la rappresaglia delle Fosse Ardeatine; Kappler venne condannato per aver fatto fucilare 5 persone in più, anche se la responsabilità non era stata sua. Tutti i sottoposti di Kappler, compreso Priebke (che non venne mai citato e preso in considerazione in quel processo), vennero assolti il 21 luglio 1948, per la circostanza attenuante di aver obbedito ad un ordine.
L’assurdo giuridico del processo a Priebke consiste nel fatto che venne condannato nel 1996 per tutti i 335 fucilati mentre era stato assolto nel 1948, e inoltre venne condannato a una pena superiore a quella inflitta al suo comandante Kappler.
Tornando alla lista che portò alla fucilazione di 5 persone in più (anche se dovremmo parlare di 125 fucilati in meno, considerando i soldati morti nei giorni successivi, dei quali Kappler non riferì ad Hitler per evitare l’aggravarsi della rappresaglia), la lista dei condannati fu scritta in gran parte dai tedeschi, ma mancando alcuni nomi fu chiesto di completarla al questore di Roma, Caruso. Questi scrisse 55 nomi (sembra anche i cinque in più) scelti tra i reclusi.
Nel 1944 fu fatto il processo contro Caruso. Il primo testimone contro di lui fu Donato Carretta, direttore delle carceri da cui furono prelevati i condannati. Caruso fu condannato a morte il 21 settembre e subito fucilato.
Carretta era tranquillo. Aveva un certificato di benemerenza rilasciato da Nenni ed era in contatto con il CLN. Ma venne il suo turno e fu accusato di essere il responsabile di quelle 56 morti. Incredulo fu portato in Tribunale dove, durante l’udienza, una donna balzò in piedi urlando come un’ossessa: “Ha fatto morire mio figlio, è stato lui a mandarlo alle Ardeatine, deve pagare, uccidetelo (…)”.
La folla travolse i carabinieri, Carretta fu afferrato da cento mani, sollevato da terra, spinto a calci e pugni verso l’uscita. Venne trascinato fino al bordo del Lungotevere; intanto sopraggiungeva un tram e l’ infelice fu sdraiato sulle rotaie perché il veicolo lo straziasse, parendo troppo dolce per lui qualsiasi altra morte. Il tramviere fermò il tram, tolse la manovella dal comando e scese. Agli energumeni che gli si scagliarono addosso disse che lui non era un assassino, e alle accuse di essere invece un fascista rispose mostrando la sua tessera del partito comunista: si chiamava Angelo Salvatori e credo che il suo nome dovrebbe essere ricordato. Carretta, ancora in sé, fu scaraventato nel Tevere dal Ponte Umberto. Cadde in acqua, si afferrò ai bordi, ma gli schiacciarono le mani con i piedi, sicché si abbandonò alla corrente. Due uomini saltarono su una barca, lo raggiunsero e cominciarono a colpirlo con i remi sulla testa. L’ infelice urlava e aveva ancora la forza di tentare di salvarsi, nuotando e lasciandosi andare sott’ acqua per evitare i colpi. Ma ogni volta che riemergeva il linciaggio riprendeva, finché una larga chiazza rossa di sangue intorno al suo corpo fece intendere che era morto. Il fiume trascinava via il cadavere, ma al Ponte Sant’ Angelo riuscirono a tirarlo a riva, la folla non era ancora sazia del suo orrendo pasto. Si udiva gridare “A Regina Coeli, a Regina Coeli”, perché si voleva che Carretta avesse l’estrema punizione di essere esposto là dove avrebbe commesso i suoi delitti. Arrivati alla prigione, Carretta seminudo, sfigurato, ricoperto di sangue, con la testa maciullata, fu crocifisso al portone. Le urla, la marea di gente raccolta nella strada, i colpi, le esplosioni selvagge d’ un giubilo bestiale fecero affacciare alla finestra due donne. Erano la moglie e la figlia di Carretta e questo completò la ferocia di una scena che si apparenta nella vergogna e nell’orrore soltanto alla macelleria messicana di piazzale Loreto.
La donna che in aula aveva determinato la condanna a morte di Carretta non aveva avuto nessun figlio ucciso alle Ardeatine. Anzi, non aveva nessun figlio. Si disse poi che era una pazza, ma qualcuno affermò che si era trattato di un elemento dello spionaggio sovietico usato per motivi che oggi definiremmo destabilizzanti.
Naturalmente, mentre il povero Priebke viene ricordato come “boia”, “criminale” ed “assassino”, nessuno dei sopra descritti banditi comunisti pagò per quel macello…
Ora, dopo avere illustrato con dovizia di particolari le questioni storiche e giuridiche, veniamo ad analizzare più da vicino le mille infamie commesse ai danni del povero Capitano Priebke; egli, benché assolto implicitamente nel 1948 quale collaboratore di Kappler, fu praticamente rapito dal governo italiano, con la complicità di quello argentino… In Italia il reato di genocidio non cade in prescrizione, ma ciò vale solo a partire dal 1967, grazie ad una legge non retroattiva di quell’anno. Perciò il fatto delle fosse Ardeatine del 1944 non poteva essere giudicato come genocidio non prescrittibile in Italia. Priebke, in breve, non poteva essere giudicato per genocidio in Italia, poiché il suo “crimine” risaliva al 1944 e la legge sul genocidio datava al 1967. Quindi doveva esserlo per omicidio.
Allora, siccome in Argentina, ove risiedeva Priebke sin dal 1948, il genocidio non cadeva in prescrizione sin dalla seconda guerra mondiale, mentre il reato di omicidio cade in prescrizione dopo 15 anni dal fatto, l’Argentina concesse l’estradizione per genocidio (imprescrittibile in Argentina) e non per omicidio (che era caduto in prescrizione in Argentina 15 anni dopo il 1944). Nonostante ciò l’Italia non lo processò per genocidio, reato per il quale era stato estradato, ma per omicidio plurimo che in Italia non cade in prescrizione e per il quale è previsto l’ergastolo, se non vi è nessuna circostanza attenuante, per esempio un ordine ricevuto. Tale attenuante, che fu riconosciuta a Norimberga e a Roma nel 1948, non lo è stata per Priebke nel 1996!
Ma c’è di più; nonostante le tante barbarie giuridiche sopportate, Priebke il 1º agosto 1996, venne assolto dal Tribunale militare, il quale, pur riconoscendo la responsabilità dell’imputato, ritenne che allo stesso si dovessero applicare le attenuanti e dichiarò di “non doversi procedere, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione”, ordinando l’immediata scarcerazione dell’imputato.
Arriviamo così ad una delle pagine più disgustose e vergognose della recente storia italica: una folla inferocita di sudici giudei urlanti assalta il Tribunale che ha appena assolto Priebke; i servizi di tutti i TG mostrano questi lerci esseri, con le bave alla bocca, che attaccano e percuotono magistrati, avvocati e persino Carabinieri in divisa… I giudici si salvano dal linciaggio fuggendo dall’aula, il caos è totale…
Come reagisce questa squallida repubblica ad un simile assalto? Inviando sul posto l’allora Ministro Giovanni Maria Flick, di nobile famiglia giudaica, che impone di arrestare nuovamente Priebke e non prende alcun provvedimento nei confronti delle belve sue correligionarie responsabili dell’assalto!
Giova ripeterlo: non un solo delinquente giudeo venne arrestato e/o perseguito per la vergognosa aggressione, nonostante le telecamere di tutte le TV presenti avessero ripreso i volti dei capobastone più esagitati!
Immaginatevi cosa sarebbe successo se una folla di Fascisti avesse attaccato un Tribunale per contestare una Sentenza…!
Così un povero soldato, dopo essere stato assolto nel 1948 e nel 1996, viene nuovamente arrestato su ordine della comunità ebraica romana e sottoposto a nuovo processo; questa volta, le infami istituzioni italiane, per evitare ulteriori isterismi giudeo – comunisti, condanna il Capitano Priebke per la prima volta. La sentenza venne emessa il 22 luglio 1997: un verdetto di colpevolezza e la condanna a 15 anni di reclusione, in parte condonati (dieci anni per effetto del decreto di amnistia generale del 1945) o già scontati (i tre anni e quattro mesi del suo arresto preventivo in Argentina). Nella sentenza di condanna, i giudici del tribunale militare, sancirono comunque l’affermazione della imprescrittibilità del reato per i crimini di guerra.
Ma la sete di sangue dei frequentatori di sinagoghe non si spegne così facilmente; all’interno delle loro lugubri logge di potere hanno deciso che Priebke non tornerà mai più libero, neppure per potere assistere al funerale della moglie.
Contro la sentenza del 22 luglio 1997 ricorsero in appello sia la procura militare con a capo Antonino Intelisano, sia i difensori dei due imputati e il processo d’appello iniziò quindi il 27 gennaio 1998, nell’aula bunker del Foro Italico, a Roma.
L’8 marzo 1998, la Corte d’appello militare accolse le richieste del pm e, dopo otto ore di camera di consiglio, sentenziò la condanna all’ergastolo per Priebke e per Karl Hass.
Parlando dell’infamia di questi procedimenti orchestrati da oscure regie giudaico – massoniche, giova ricordare anche la sorte del sopra citato Hass, attirato in Italia dalla Svizzera per testimoniare nel processo contro Priebke, ma rinviato immediatamente a giudizio e condannato insieme a lui per placare la sete di sangue del moloch giudaico.
L’ultima sentenza che chiuse l’iter processuale contro l’ex capitano delle SS arrivò il 17 novembre 1998, quando la Corte di Cassazione si pronunciò per la conferma definitiva della condanna all’ergastolo. Dopo quattro ore di camera di consiglio la prima sezione penale della Cassazione, respingendo i ricorsi dei difensori, confermò la sentenza emessa il 7 marzo precedente dalla Corte d’appello militare di Roma. Pochi mesi dopo, anche a causa della sua età avanzata, la notoria “bontà” giudaica fece sì che fosse concesso a Priebke di scontare la pena agli arresti domiciliari.
Karl Hass si è spento all’età di 92 anni, il 21 aprile 2004, mentre scontava l’ergastolo agli arresti domiciliari presso la Casa di riposo Garden di Castel Gandolfo, ove era ospitato in considerazione dell’età avanzata e delle condizioni di salute. È sepolto nel cimitero comunale di Castel Gandolfo. Stranamente, il giudeame che tanto ha tramato contro Erich Priebke fino ed oltre la sua morte, non ha assaltato con eroismo e sprezzo del pericolo la salma dell’anziano Maggiore, risparmiandogli anche le tante manifestazioni ed aggressioni che invece furono riservate a Priebke durante tutto il periodo del suo sequestro romano!
Eh già, perché nei pressi dell’abitazione concessa al povero Priebke per trascorrere  gli ultimi 15 anni della sua vita, si assiepavano spesso sia le montagne di letame appartenenti alla comunità ebraica romana, sia i mucchi di sterco del variegato panorama della sinistra italiana, tutti sempre in servizio permanente ed effettivo antifascista (in stile NOTAV e centri so(r)ciali vario, per intenderci), tutti esentati dall’obbligo di lavorare (tanto, in qualche modo li manteniamo noi con i soldi che ci estorcono tramite tasse ed imposte varie) e tutti indomiti “eroi” in stile partigiano, pronti ad assalire un quasi centenario nelle sue rare uscite e ad insultarlo con striscioni e scritte varie.
Del resto, non dobbiamo stupirci, li conosciamo bene: attaccano sempre alle spalle e solo se almeno in dieci contro uno, questi vigliacchi della sinistra che fungono da servi sciocchi alla lobby ebraica internazionale… Dimenticandosi che molto spesso anche gli esponenti dell’estrema sinistra si sono ritrovati aggrediti e feriti dalla manovalanza delinquenziale inviata dalla comunità ebraica romana, come la Lega ebraica di difesa, versione tricolore dell’americana Jewish Defense League; nella Capitale l’elenco di aggressioni del gruppo ultra-ortodosso è lungo e molto spesso a farne le spese sono gruppi ed esponenti dell’area dei centri sociali e della sinistra radicale, considerati obiettivi da colpire in quanto filo-palestinesi.
Ma faglielo capire a quei coglioni rossi!
Carlo Gariglio
www.fascismoeliberta.it

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