Roma,
3 feb – Se ci trovassimo a percorrere il nostro Bel Paese, per quel
tratto calabrese di litorale tirrenico della provincia di Cosenza,
attenti con lo sguardo e la mente a ricercare gli inaspettati gioielli
che quella terra conserva, persino sin troppo “gelosamente”, saremo di
certo richiamati da un oggetto. Sulla sommità di una collina che
sovrasta la costa, vedremo svettare maestosa e salda una colonna.
Sappiate sin da ora che quella colonna rappresenta un evento più unico
che raro. È la tomba monumentale di un fascista. È infatti il sacrario in cui riposano le spoglie mortali di Michele Bianchi, costruito dai suoi compaesani di Belmonte Calabro. Michele Bianchi morì a quarantasette anni non ancora compiuti, proprio in questo giorno, il 3 Febbraio 1930,
nell’anno VIII° di quella rivoluzione in cui egli credette fermamente
sin dall’inizio e che contribuì a rendere concreta, con il suo pensiero e
la sua prassi. Socialista appassionato, sindacalista fervente,
interventista convinto, pensatore brillante, combattente coscienzioso,
sansepolcrista consapevole, politico integerrimo, quadrumviro
dottrinale, legislatore efficiente, ministro dotato. Pur nella stringente sintesi delle tappe ideali della sua esistenza, colpiscono due questioni,
per certi versi eguali e contrarie. La sua importanza niente affatto
secondaria nelle vicende di quegli anni e di questi uomini, che dovevano
fornire e formare l’ossatura umana del Fascismo. E, di contro, lo
sconsolante oblio in cui è immerso, attitudine che accomuna, salvo
eccezioni, tanto i suoi detrattori quanto i suoi estimatori. Per la
serie “Michele Bianchi chi?”.
Senza
soffermarci troppo in un opera di investigazione sui motivi che hanno
portato a questo atteggiamento, che sembra conformarsi alla massima del
“marciare divisi per colpire uniti”, riteniamo doveroso
riportare alla luce un uomo che fu uno più lucidi cervelli politici
italiani del sindacalismo prima e del fascismo poi. Non per
sterile vezzo di conoscenza, e nemmeno per semplice ricordo di figura
dimenticata. Ma perché il valore di quest’uomo, nella sua elaborazione
ideale come nei suoi atti pratici, appare tanto tremendamente attuale,
che plausibilmente lo dovremo piangere più noi che i suoi contemporanei.
Un uomo che visse la sua intera esistenza con un etica
rigorosa, un impegno sindacale e politico intransigente, ed un idea
forte che rappresentava il faro della sua azione: il lavoro. Il lavoro come artefice della coscienza umana. Il lavoro come luogo della socialità degli individui. Il lavoro come collante della Nazione.
Contrariamente ai suoi detrattori, provenienti dal mondo politico
intellettuale “antifascista”, che vedono nel pensiero e nelle opere del
Bianchi solo una “rozza involuzione”, aggravata oltretutto dal supremo
marchio di infamia del tradimento, cosa che non potrebbe essere
altrimenti viste le premesse di cui sopra, ciò che a noi colpisce invece
è la ferrea coerenza di un pensiero che, nonostante si
estrinsechi in tappe cronologicamente successive, rimane graniticamente
fedele ad alcuni principi ed idee cardine. Detto in soldoni, mentre per
gli antifascisti Bianchi è una persona negativa in toto, o al massimo
un rivoluzionario positivo che poi, non si capisce per quale ragione,
perde sanità mentale e diventa comunque un cattivone, per noi rimane non
solo rivoluzionario per tutta l’esistenza, ma coerente fino in fondo.
Misteri della storia, o meglio della storiografia.
Michele Bianchi, chiamato “Michelino” per via della sua corporatura esile,
dopo la militanza giovanile socialista ed il suo avvicinamento al
sindacalismo rivoluzionario, fece parte, assieme a Filippo Corridoni (di
cui abbiamo parlato) e Benito Mussolini, del gruppo degli
“interventisti”, che nel 1914-1915 premevano per l’entrata in
guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Come Corridoni, anche
lui maturò ed elaborò il concetto di lavoro e nazione come fattori
inscindibili. Già nel primo dopoguerra la sua idea era che il sindacalismo fosse “scuola di aristocrazia, nel pensiero e nell’azione”. E nella celebre riunione di piazza San Sepolcro del 1919, in cui furono ufficialmente fondati i Fasci di Combattimento,
non esitò ad esprimersi in termini di rigoroso realismo: “È facile
incontrare la simpatia delle masse con grandi promesse. Bisogna avere
invece il coraggio di dire che se le conquiste economiche del
proletariato non saranno affondate nel granito di una prosperità
industriale e commerciale, esse non potranno essere che effimere. […].
Un movimento che intendesse consegnare a delle folle ancora incapaci le
redini della società, sarebbe un movimento eminentemente reazionario. La
rivoluzione, per essere degna di chiamarsi con questo nome, deve avere
come fattori coscienti uomini di qualità superiori a quelle possedute
dagli elementi del regime che vuole abbattere. Ora la missione nostra
non è quella di distruggere: è quella di creare”.
Nella direzione del movimento fascista ante marcia occupò un posto niente affatto secondario, sia come segretario politico del Fascio di Milano, sia rivelando la sua “ars costruens” su tre direttrici: quella educativa, con la scuola di propaganda fascista; quella organizzativa, con la creazione del Partito Nazionale Fascista; e quella produttivistica, con la realizzazione dei sindacati fascisti. Nel primo ambito, figura la creazione della scuola di propaganda fascista nel 1921, in cui Bianchi espose la sua idea relativa alla categoria metapolitica di Nazione:
“La nazione è, prima di ogni altra cosa, un’unità etnica. Quando
nell’unità etnica si inserisce l’unità storica politica, ed è questo il
processo normale che presto o tardi non manca di verificarsi, la realtà
nazionale risulta nella sua compiutezza”. Lo stesso Bianchi fu tra i promotori della trasformazione del movimento in partito,
che doveva essere “ingranaggio” con cui sostituire i meccanismi del
vecchio sistema di potere. Ne divenne anzi segretario politico nel
famoso congresso di Roma del ‘21, promuovendone oltretutto la sua completa militarizzazione
in occasione del cosiddetto “sciopero legalitario” del ‘22, non
disdegnando, ma anzi, la prospettiva militare di presa del potere.
Sempre nel 1922, terzo braccio della sua opera, contribuì a fissare le
linee guida della neonata Confederazione Generale dei Sindacati Nazionali,
in cui ritroviamo il binomio lavoro-nazione enunciato, tra i punti, in
questo modo: “1. Il lavoro costituisce il sovrano titolo che legittima
la piena e utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale. 2. Il
lavoro è la risultante degli sforzi svolti armonicamente a creare, a
perfezionare, ad accrescere quanto forma benessere materiale, morale,
spirituale dell’uomo. […]. 4. la Nazione – intesa come sintesi superiore
di tutti i valori materiali e spirituali della stirpe – sopra gli
individui, lo categorie e le classi”. In queste citate parole non può
non riecheggiare la stessa elaborazione che ritroveremo compiutamente
presentata nella Carta del Lavoro del 1927, sin da
subito considerata come una della più alte realizzazioni del regime
fascista, tanto da venire addirittura preposta alla pubblicazione del
codice civile del 1942 (ne abbiamo parlato qui).
E qui ci sia permessa una divagazione sul tema. Questo caposaldo
legislativo è stato sistematicamente ignorato o totalmente depotenziato
da gran parte della storiografia successiva, che uno come l’omnicitato Renzo De Felice
scrisse che “nulla insomma vi era di “rivoluzionario” nella Carta del
lavoro”. In primis, se un documento del genere aveva poca più importanza
di un verbale di condominio, come mai, ad esempio, venne abolito già
nel novembre ’44 dal regno del sud sotto il governo Bonomi e la reggenza
di Umberto di Piemonte? Durante la guerra era davvero una priorità? In
secundis, e qui ritorna la tremenda attualità di Michele Bianchi o dalla
Carta del ‘27, in quel periodo in Italia si metteva nero su bianco il
lavoro come dovere sociale, il doveroso intervento dello stato in economia, e concetti davvero basilari quali il periodo di prova comunque pagato. Mentre nel 2017 sempre nella stessa Italia, gli argomenti all’ordine del giorno sono “competitività”, leggi: abbassare stipendi e tutele; “mercato globale”, leggi: delocalizzazione e sostituzione di popoli (o esercito industriale di riserva per far capire il concetto ai “marxiani”); “difesa dell’euro”, leggi: trionfo dell’economicismo liberista;
“l’economia della promessa”, leggi: stage gratuiti. Tutto ciò risulta
ancora più rivoluzionario. Come diceva il sommo poeta: “Nessun maggior
dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria”. Ma questa
situazione dall’amaro sapore orwelliano, il nostro Michelino non ebbe il
piacere di viverla, poiché era impegnato in un’altra era, in cui c’era
da organizzare la Marcia su Roma, il quale lo vide
calzare le vesti del quadrumviro, organizzare la complessa macchina
fascista a livello legale, e predisporre le manovre politico militari
per una presa di forza del potere. A tal proposito è indicativa la sua
lapidaria sentenza “a Napoli piove, che ci stiamo a fare?” pronunciata
durante il congresso di Napoli dell’ottobre ‘22, quando oramai la
mobilitazione e la marcia erano già state decise.
Nominato segretario generale al ministero dell’Interno nel primo governo Mussolini, rivelò in queste vesti le sue doti legislative e il suo fanatismo dottrinale. Infatti se da un lato contribuì a stilare la nuova legge elettorale per le elezioni del ‘23, passata alla storia come “legge Acerbo”, ed in cui egli stesso sarà il politico fascista che avrà più preferenze secondo solo allo stesso Mussolini,
si impegnò per la difesa dell’ortodossia fascista contro i pericoli di
adagiamento e compromessi che coinvolsero persino alcune frange del
fascismo. Anzi durante la crisi del ’24, seguita alla morte del deputato socialista Matteotti, venne visto come uno degli “intransigenti”, di idee ed attitudini diverse rispetto ad un Roberto Farinacci, ma non per questo meno rigoroso. Accanto a ciò, e rappresenta un ulteriore realizzazione dei suoi propositi, si prodigò per l’elevazione dell’Italia meridionale ed in particolare della sua Calabria.
Durante gli anni della sua permanenza come sottosegretario ai lavori pubblici, dal ’25 al ’28, e poi come ministro, dal ’29 alla morte, fedele al suo obiettivo che una vera unione nazionale dovesse necessariamente passare attraverso la costruzione di un “logos” comune in termini di civiltà,
costruzione che doveva essere tanto spirituale quanto materiale, si
fece promotore di un intensa opera di sviluppo di quella regione, fatto
peraltro di cui anche i detrattori non hanno potuto esimersi di far
notare. Ripagando il suo “Fascismo di pietra” della stessa moneta, alla
sua dipartita terrena, i compaesani vollero perciò dedicargli il
monumento funebre di cui abbiamo scritto. Ed è proprio quella colonna
che, come una volta fungeva anche da faro, continua idealmente ad
esortarci sul significato che lavoro e nazione seguitano a rappresentare
per la vita di un popolo.
Lorenzo Mosca
Fonte: http://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/michele-bianchi-il-lavoro-come-suprema-etica-nazionale-56840/
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