Dovrebbe
esistere un limite, un segnale di stop, un momento di silenzio nella vita di
qualunque uomo, fosse anche il più combattivo, determinato e polemico tra gli
uomini. È il momento in cui, davanti alla morte, si tace e si rimane in
silenzio, lontano dalle declamazioni di parte e dai rancori della politica,
della religione o dell’ideologia. Si commemorano i morti, o si riflette
quantomeno su di essi, e, soprattutto, si permette all’altra parte, all’avversario,
fosse anche il proprio peggior nemico, di piangere i suoi. È lo stesso Omero,
nella sua Iliade, che ci racconta come, anche nelle battaglie più sanguinose e
cruente, vi fossero delle pause prestabilite tra i due eserciti: davanti alla
morte perfino l’avversario più acerrimo deponeva la spada e rimaneva in
silenzio, ad onorare le lacrime del nemico che piangeva il camerata che
combatteva fino a poco prima al suo fianco. Addirittura era stabilito un campo
neutro, tra i due schieramenti nemici, dove ciascuno consegnava vicendevolmente
all’altro i corpi dei morti che aveva fatto prigionieri, affinché potesse esser
data a quegli stessi corpi una degna sepoltura.
Il
dolore della morte è ciò che di più personale, di più intimo e di più sacro
possa esserci all’interno di una comunità: rispettarlo ed onorarlo fa parte
dell’antropologia e della spiritualità dell’uomo, dagli albori del mondo fino
ad oggi.
In
queste ultime settimane abbiamo potuto sperimentare, sulla nostra stessa pelle,
come i nostri avversari politici concepiscano le nostre, di morti: con un
disprezzo ed un odio così acuto e pungente da diventare disumano e finanche
crudele. Li abbiamo visti all’opera, i nostri nemici politici, gli antifascisti
di professione, i democratici a comando, i sostenitori dei diritti umani imposti
a suon di bombe e decreti legge, riempire di calci e di sputi la bara di un
soldato che aveva avuto, nella sua vita, un unico torto: essersi comportato da
soldato e da uomo prima e dopo la guerra; li abbiamo visti nascondere la tomba
per evitare che qualcuno tra noi potesse piangere quella morte. Nascondere il
corpo di un morto a chi vuole piangerlo, dopo che ci si è incarogniti contro di
lui in vita e dopo la vita, è qualcosa che non si riscontra nemmeno nelle
civiltà aborigene, che sono pur conosciute per la macabra abitudine di divorare
il cuore dei nemici uccisi.
Ci
siamo rassegnati a non avere nemmeno una tomba su cui pregare Erich Priebke e,
dopo essere stati bene attenti a non guardare i servizi televisivi di quelle
bastarde carogne che troppo gentilmente si suole definire come “giornalisti”,
al fine di evitare di farci il fegato amaro e di aggiungere la rabbia al
dolore, ci siamo abituati all’idea di piangerlo da soli, dentro di noi, il
nostro morto. Il nemico è barbaro, è disumano, mostra una crudeltà che, in
tutta franchezza, ci stupisce e talvolta ci spiazza e ammutolisce, perché ci
rafforza nella nostra convinzione che la battaglia che portiamo avanti è, se
possibile, ancora più sacra: non combattiamo contro uomini, bensì contro mostri
senz’anima.
Quanto
alla gioia degli antifascisti per la morte di un bastardo nazista, siamo
vaccinati alle indecenti esultanze di chi si rallegra della morte altrui: della
disumanità di questa gente ce ne siamo fatti ampiamente una ragione. Quindi pensavamo,
dopo la scomparsa del Capitano, di aver assistito al peggio del peggio. Incredibile
ma vero, ci siamo sbagliati. Non siamo mai sufficientemente smaliziati contro
questi immondi esseri, che per comodità definiremo gli “antifascisti”, con i
quali abbiamo a che fare.