martedì 24 febbraio 2009

Il mondo crolla, ma loro combattono il protezionismo


Molto probabilmente, nel solo 2009, la crisi economica in corso porterà a ben 3,5 milioni di disoccupati e ad una complessiva contrazione del dato occupazionale che si aggirerà intorno al 6%. Questi sono i dati, nudi e crudi, della BCE. Tra l’inizio del 2008 e l’attuale 2009, infatti, il tasso medio di disoccupazione europea è passato dal 6,8% al 7,4%. Come ben sappiamo, purtroppo, i mercati che più soffrono attualmente non sono esclusivamente gli hedge funds e i fondi di investimento cosiddetti “tossici”, ma anche quello del mercato automobilistico, vero e proprio cavallo di battaglia dell’industria europea. Già in queste settimane diverse case automobilistiche stanno annunciando la chiusura di diversi impianti o la diminuzione della produzione; i primi giganti cominciano a cadere: la Bridgestone, la multinazionale produttrice ed esportatrice di pneumatici in tutto il mondo, nonché unica fornitrice delle gomme per le monoposto del campionato di Formula 1, annuncia la decisione, definita temporanea, di chiudere buona parte degli impianti produttivi europei.
La Commissione Europea ha valutato anche un altro importante dato: gli assets (altrimenti chiamati anche “attivi tossici”) a rischio corrispondono a circa il 44% del bilancio complessivo delle banche europee; sono all’incirca 18 trilioni di dollari, una cifra semplicemente spropositata difficile, per l’uomo comune e non solo, anche solo da immaginare e da calcolare. Le banche europee, dal canto loro, sono esposte per circa 25 trilioni di dolari.

Il pericolo è concreto: se gli Stati nazionali faranno quello che hanno fatto fin ora, cioè comprare i titolo a rischio o a valore 0 per salvare le banche, il rischio che collassi il debito pubblico nazionale è serio e concreto. In sostanza ci stanno dissanguando per pagare i grandi banchieri e gli speculatori, che rimangono al proprio posto.

Un altro pericolo attende poi gli Stati nazionali: i BOT. Stati enormemente indebitati (Grecia, Italia) riusciranno a sostenere la concorrenza dei BOT di altri Stati più sani (Germania) o più forti militarmente (USA)?

Già, l’America. E in America che fanno? Le iniezioni di denaro liquido effettuate dagli Stati Uniti non hanno superato i 3 trilioni di dollari: in sintesi è come cercare di chiudere la falla in una diga con un dito.

Obama ha appena firmato la legge che con 800 miliardi di dollari “dovrebbe” rilanciare l’economia degli Stati Uniti: sgravi fiscali alle imprese, aiuti diretti ai cittadini, modernizzazione delle infrastrutture; a seguire un pacchetto di aiuti per il settore dell’auto che, guarda caso, sarà strutturato in base ai piani economici che stileranno a breve General Motors e Chrysler.

E mentre i pennivendoli europei sbavano in estasi, attendendo la magia del neoPresidente, questi dimostra inequivocabilmente come intende gestire la crisi economica attuale: lasciarla nelle mani dei grossi banchieri. Facciamo qualche nome tra quelli che Barack Obama ha recentemente inserito nel suo staff. Susan Rice, ambasciatrice ONU; Annemarie Slaughter (un nome, una garanzia: “slaughter” in inglese significa “carneficina”), al Dipartimento di Stato; Neal Wolin, responsabile della politica economica nazionale USA; Ezekial Emanuel, consigliere del Presidente per la gestione economica della sanità americana; Lawrence Summers, presiede il Consiglio Economico Nazionale; Peter Orszag; Peter Rouse e Mona Saupthen, consiglieri del Presidente. Cosa accomuna tutti costoro? Semplice: il provenire dalla scuola Rotschild, l’onnipotente e influentissima dinastia di banchieri ebrei.

La domanda da fare è questa: ma i politici europei stanno facendo qualcosa di concreto? Hanno individuato i punti deboli di questo sistema economico, in modo da poterli correggere? Hanno dei progetti a lungo termine per uscire da questa crisi? Sono tutte domande legittime. Eppure basta fare un giretto tra i giornali di regime per accorgersi che il grande spauracchio di cui si parla in questi giorni è uno solo: il protezionismo. Mentre il mondo va a rotoli, loro pensano a combattere il protezionismo. L’ha detto chiaramente la Merkel, Berlusconi, Sarkozy, ed anche Dennis Blair, il nuovo capo delle spie americane, che ha parlato qualche giorno fa davanti alla Commissione Intelligence del Senato americano. In sintesi, secondo Blair, il più grave pericolo che devono affrontare gli Stati nazionali, ed occidentali in particolare, non è solo la crisi economica e il terrorismo, ma anche e prevalentemente un surrogato della prima: il protezionismo, appunto. L’opinione pubblica, e molti cittadini, si convince sempre più che l’attuale sistema economico capitalistico si sia dimostrato sostanzialmente insufficiente a gestire la crisi economica attuale, e che anzi ne sia la causa principale. Il capitalismo come sistema economico universalmente accettato, pertanto, è in pericolo. E se si guarda alle più recenti dimostrazioni di rivolta popolare in Europa (la Grecia, ma soprattutto l’Islanda, il cui governo nazionale è stato rovesciato dalla popolazione, nel più assoluto silenzio della nostra liberissima stampa), ben presto i governi europei dovranno fronteggiare vere e proprie rivolte popolari e nazionali, le stesse che, negli anni ’20 e ’30, hanno portato ai fascismi europei. Ecco lo spauracchio contro cui combattere: il Fascismo, ancora una volta. Nei loro panni, non la si potrebbe pensare diversamente. Sanno bene che in Italia e Germania governi forti e social-nazionali hanno combattuto la dittatura dei banchieri fino ad immolarsi nell’olocausto della seconda guerra mondiale, da questi ultimi programmato e voluto.

Il mondo crolla, e loro parlano di lotta al protezionismo e al Fascismo. Per difendere il loro potere e i loro privilegi possono solo cercare di prolungare la vita di quel malato terminale che è il sistema capitalistico, anti-umano per eccellenza. Ci affamano e rimangono al timone. Non lo lasceranno spontaneamente.

martedì 17 febbraio 2009

La Sardegna incorona Cappellacci


Già dalle 20.00 di ieri sera, il risultato delle elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale della Sardegna non lasciava dubbi: Ugo Cappellacci è il nuovo Governatore della Regione, dopo aver superato la coalizione di Renato Soru con quasi 5 punti percentuali di vantaggio.

Ieri sera, già subito dopo la chiusura delle urne elettorali (avvenuta alle 15.00), a Palazzo Doglio, quartier generale di Cappellacci, l’euforia cresceva di ora in ora; euforia che poi è diventata un boato dopo che ci si è accorti del distacco netto che l’ex commercialista del centro destra ha impresso all’ex Governatore Soru. Quest’ultimo, dal canto suo, ha retto bene nelle zone di Nuoro e Sassari, ma ha subito una vera e propria Caporetto nelle zone di Cagliari, Sulcis ed Iglesiente.

In molti avevano pronosticato la vittoria del centrodestra, ma nessuno si aspettava un distacco così netto nei confronti degli oppositori. La decisione di schierare una faccia nuova della politica sarda, e di buttarla a capofitto nella competizione elettorale spalleggiata dal Presidente del Consiglio, è risultata vincente. In qualsiasi apparizione di Cappellacci, infatti, Silvio Berlusconi era sempre presente. A mio parere, se questa scelta è stato vista da molti come una sorte di debolezza da parte del neo Governatore, essendo, secondo molti, il poggiapiedi di Berlusconi, alla fine la decisione di affidare a Cappellacci la completa gestione della campagna elettorale, supportandolo con il Presidente del Consiglio e con i vari ministri che si sono intervallati nelle piazze sarde per sostenere il candidato della destra, è risultata efficace. Tanta la potenza di fuoco messa a disposizione. E, ancora, molti elettori hanno pensato che se ci fosse stata al governo la stessa parte politica che guida il Paese, forse la Sardegna avrebbe goduto di un canale privilegiato.

Queste e tante altre sono, a mio parere, le motivazioni che hanno fatto si che la destra potesse vincere; oppure che la sinistra potesse perdere. Eppure la sconfitta della sinistra non era affatto scontata. Per quanto, entrando nel merito, molte decisioni della ex Giunta regionale siano discutibili o criticabili, politicamente Soru ha dimostrato di sapersi muovere nei meandri della politica regionale. La legge salvacoste, la tassa sul lusso, le manovre per liberare alcune basi militari sarde dalla presenza americana, questo e altro, sono stati dei veri e propri fiori all’occhiello del Governatore, che così facendo non si ha galvanizzato solo i suoi precedenti sostenitori, ma anche una parte dello zoccolo duro degli indipendentisti sardi o dei sardisti, raggiungendo un picco di popolarità che pochi Governatori sardi hanno avuto nella Storia della Sardegna. E’ molto raro che un Governatore sempre al centro del mirino per le sue scelte politiche, che scioglie di colpo il Consiglio Regionale facendo la voce grossa con la sua maggioranza, potesse contare su tutta la popolarità che Soru ha, nonostante tuto, dimostrato di avere. In queste elezioni Renato Soru, che fino a qualche giorno fa era visto come l’uomo nuovo del PD, ha giocato il tutto per tutto: ha sciolto di colpo il Consiglio Regionale e, al grido di “O la va o la spacca”, ha cercato di imbastire una campagna elettorale contando sull’impreparazione dei suoi avversari. Ora l’ex Governatore esce fortemente ridimensionato. E, nella riunione nazionale del Partito Democratico, già si vedono le prime avvisaglie di una guerra interna che si annuncia velenosissima: Walter Veltroni ha presentato le dimissioni, che non sono state accettate. Ma l’allarme non è assolutamente rientrato, e si preannuncia una lotta intestina che non mancherà di divertirci.

E mentre la sinistra si lecca le ferite, tanti sono i problemi con i quali deve confrontarsi la nuova Giunta Regionale: la disoccupazione, la sicurezza, la povertà che attanaglia un sempre maggior numero di famiglie sarde, e così via. Vedremo.

Ancora, merita una menzione il fatto che toppano clamorosamente gli indipendentisti di Sollai, mentre Gavino Sale supera il 3%. Per il centrodestra, invece, l’UDC si conferma determinante nel portare voti. Non è una buona notizia.

domenica 15 febbraio 2009

Pacchetto sicurezza: ecco la censura di internet

Nel disegno di legge 733, quello che viene definito “pacchetto sicurezza”, c’è un importante elemento riguardante il futuro della rete internet in Italia, con rischi per la libertà di informazione e di pensiero. Questa proposta viene presentata come un elemento legislativo importante per impedire l’incitamento all’odio razziale, alla violenza, all’intimidazione ed alla diffamazione tramite la rete web. Apparentemente non c’è nulla di strano. E’ del tutto legittimo e giusto, infatti, impedire che tali reati vengano compiuti anche nella rete internet: poiché l’incitamento alla violenza, alla discriminazione e all’odio razziale sono reati già sanzionati all’interno del Codice Penale, ci si aspettava l’estensione di questa legislazione anche ad internet, che, ora come ora, è terra di nessuno. A leggere meglio l’emendamento, però, le cose non stanno così.
Nel DDL, a firma Gianpiero D’Alia dell'UDC (in foto), l’articolo 50 bis, dopo un primo rimaneggiamento, afferma:

"Salvo che il fatto costituisca reato, il Ministro dell'interno, quando accerta che alcuno, in via telematica sulla rete internet, compie attività di apologia o d’incitamento di associazioni criminose in generale, di associazioni mafiose, di associazioni eversive e terroristiche, ovvero ancora attività di apologia o d’incitamento alla violenza in genere e alla violenza sessuale, alla discriminazione o all'odio etnico, nazionale, razziale o religioso, dispone con proprio decreto l'interruzione dell'attività indicata, ordinando ai fornitori di servizi di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine."

Che significa tutto ciò? A mio parere una cosa gravissima: che l’attività delinquenziale non viene più punita e perseguita dalla Magistratura, ma è il Ministero dell’Interno che si attiva, arbitariamente, per oscurare i siti che ritiene contrari alla legge. Per far ciò si appoggia materialmente al proprietario del server informatico che ospita il sito, che ha a sua volta il compito di bloccare l’accesso al sito da parte dell’utenza, pena una sanzione che può andare da 50 a 250 mila euro. Questo implica due cose: il pericolo di un utilizzo arbitrario di questo potere da parte del Ministero dell’Interno, e una vera e propria caccia alle streghe da parte dei gestori della rete, che cercheranno – coerentemente con i loro interessi – di prevenire tali situazioni con un controllo a dir poco rigoroso.

Per i camerati del MFL la cosa non può non suscitare un senso di deja-vu. Fu lo stesso Ministero dell’Interno, quando cercammo di presentarci in Senato con una nostra lista (anno 2006), a dire chiaro e tondo all’allora Vice Segretario Nazionale Alberto Mazzer che, nonostante la nostra legalità fosse ampiamente dimostrata e documentata, non ci avrebbe mai permesso di scavalcare la ricusazione della lista oppure una eventuale censura. Il che avvenne puntualmente e nulla potemmo fare per opporci, dato che appellarsi alle decisioni del Ministero dell’Interno era, nel nostro caso, estremamente difficile. Ancora, fu sempre il Ministero dell’Interno, comandato all’epoca da Beppe Pisanu, a qualificarci come terroristi nell’apposita redazione annuale (sempre nell’anno 2006, a quanto ricordo) preparata sempre da funzionari del solerte Ministro.

Conclusioni: aspettatevi che, da un giorno all’altro, uno dei nostri siti venga oscurato senza alcuna giustificata e plausibile motivazione, nel generale silenzio dei più: se per molti “uccidere un Fascista non è reato”, figuriamoci oscurare i loro siti.

martedì 10 febbraio 2009

Hanno ucciso Eluana


Non riesco ad esimermi dallo scrivere qualcosa sulla vicenda Eluana Englaro. Non tanto perché, contrariamente al solito, stavolta parliamo di convinzioni personalissime del sottoscritto e non di linee politiche di condotta del Movimento. Ma perché vedere una ragazza che per diciassette anni, grazie anche all’ausilio della Scienza, si è tenuta aggrappata alla vita, nonostante tutto con caparbietà, vedere una ragazza così, che viene poi lasciata morire di stenti, senza bere né mangiare, non può non provocarmi una forte reazione di fastidio.

Una piccola premessa, per non turbare gli animi. Quello che scrivo oggi è mio, e solo mio. E, a prescindere dalle conclusioni alle quali sono arrivato, il rispetto per tutti coloro che hanno sofferto in questo lungo calvario, a cominciare dalla famiglia Englaro e dal padre Beppe, è forte ed implicito. Ma se bisogna portare rispetto a Beppe Englaro, ancor più se ne deve portare ad Eluana.

Da dove cominciare? Da una constatazione. Triste. Che, nella vicenda di Eluana Englaro, è stato calpestato non solo qualunque base elementare del Diritto e della Giurisprudenza, ma anche un principio logico: la dimostrazione dei fatti. Abbiamo dovuto sentire, dalla bocca di Beppe Englaro e di qualcun altro, una storiella incredibile che se fosse stata raccontata da qualcun altro si sarebbe sciolta come neve al sole. Ci hanno detto, Beppe Englaro e qualche lontanissima amica di infanzia di Eluana, che quest’ultima aveva chiaramente fatto capire che, in caso di grave incidente, non avrebbe mai accettato una condizione di stato vegetativo, e che avrebbe preferito la morte. Ovviamente non c’è niente che dimostri tutto ciò: dobbiamo fidarci delle parole del papà di Eluana. Visto il grave trauma psicologico e sentimentale al quale è stato sottoposto Beppe Englaro, e così tutta la sua famiglia, è per me logico pensare che, per quanto possa essere in buonafede, la sua capacità di giudizio può comunque essere offuscata dall’immenso dolore che si prova a vedere la propria figlia sospesa tra la vita e la morte, tenuta aggrappata a questo mondo solo da delle macchine mediche.

I giudici si sono appellati all’autodeterminazione della persona (Eluana, in questo caso, della quale non possiamo conoscere il parere), all’articolo 32 della Costituzione (che stabilisce che ogni individuo deve essere libero di scegliere le cure che vuole e che non vuole ricevere) come viatico per poter considerare il nutrimento di Eluana come accanimento terapeutico. Nessuno di questi tre elementi è, a mio parere, dimostrato.

Mettiamola così. Supponiamo che io, uomo ricco e famoso, muoia di colpo, e che una mia conoscenza si faccia avanti, dopo la mia morte, reclamando ai miei eredi 20 milioni di euro che io, secondo la sua testimonianza, gli avrei promesso quando ero in vita e nel pieno delle mie facoltà mentali. Qualunque giudice esigerebbe una cosa: che questa conoscenza dimostrasse quanto afferma: una lettera scritta da me, dove mi dichiaro disponibile a versarle quella somma; dei testimoni di fronte ai quali io avrei fatto questa promessa; e così via. In altre parole: una dimostrazione certa e inequivocabile di questa mia promessa. Ora io mi chiedo: perché tutto questo non è stato chiesto a Beppe Englaro? D’accordo, d’accordo: hanno testimoniato vecchie compagne di scuole di Eluana, e anche il papà l’ha sentita fare una dichiarazione del genere. Ma quante volte al giorno diciamo, anche pubblicamente, “Io non commetterò mai questo atto”, “Se capitasse a me reagirei in questo modo e in nessun altro”, e così via, per poi smentirci anche solo un po’ di tempo dopo? E quante azioni compiamo, giorno dopo giorno, che, in misura maggiore o minore, contraddicono quello che proclamiamo a parole? In un certo senso, non potrebbe essere diversamente. Io non sono più quello di un anno fa, e probabilmente nessuno di voi. Provate a guardare un filmato oppure una foto un po’ datata e vi accorgerete di provare una sensazione che, a prima vista, non riuscirete a spiegare: ma quello sono davvero io? Siamo in continua evoluzione, io non sono più quello che ero solo sei mesi fa, un anno fa, due anni fa: in questo lasso di tempo ho fatto delle esperienze, sono maturato, ho provato sensazioni di gioia e di dolore che hanno cambiato, seppur impercettibilmente, il mio modo di pensare e di paragonarmi agli altri ed al mondo. Probabilmente milioni di persone, in questi secondi, stanno provando delle piccole o grandi esperienze che li cambieranno per sempre e che i loro cari, i loro familiari o le loro compagne capiranno solo un po’ di tempo dopo.

Non è filosofia spicciola, e c’è una quotidianità che dimostra implicitamente quanto scrivo: cioè che, quando prendiamo delle decisioni che per noi sono altamente simboliche, sentiamo il dovere di comunicarle agli altri e di dar loro il crisma dell’ufficialità. Se io fossi quel ricco di cui parlavo prima, e volessi donare 20 milioni di euro ad un mio amico, innanzitutto scriverei una semplice lettera, nella quale mi riprometto questa generosa donazione economica, magari davanti ad un notaio: con questo gesto testimonio di prendere un impegno preciso davanti alla legge e davanti agli altri, e so di non potermi permettere il giorno dopo di dire “Ti ho fatto quella promessa dopo un pranzo in cui avevo bevuto troppo, e non ero pienamente lucido”. Ecco perché il papà Beppe mi appare sempre un po’ scolorito, perfettamente consapevole e certo di quello che ci dice, eppure incapace di convincerci appieno.

Ancora. Prendiamo per buone queste testimonianze. Io non ritengo che su una cosa del genere possano decidere gli amici, neanche quelli più stretti come ci dicono essere stati quelli che hanno testimoniato al fianco di Beppe Englaro. Io stesso, Andrea Chessa, che sono me stesso, rappresento me stesso e penso da me, non so che pensare o fare se mi trovassi nella stessa situazione di Eluana Englaro; ancor meno vorrei che lo facessero i miei amici, o coloro che dicono di conoscermi bene. Sono sicuro io stesso di conoscermi bene? Nella vita di ogni giorno mi sorprendo giornalmente: ho reazioni, modi di fare, espressioni e comportamenti che non avrei mai immaginato di poter adottare in una determinata situazione. Sono, per me stesso, una costante fonte di sorprese, anche e specialmente nelle piccole cose; ma sono sempre sorprese, piccole zone d’ombra del mio animo che non avevo ancora visto.

Che strano Paese, l’Italia. Interi partiti politici, movimenti di opinione, ONLUS e quant’altro che si battono perché nessuno tocchi il Caino dalla mano sanguinante, ma che manifestano perché si lasci morire di stenti l’innocente ed indifeso Abele. Contraddittori, e ipocriti. Verrebbe quasi da schifare e da sputare su questa gentaglia, se non avesse enorme spazio sui media e nella vita politica di questa disonorata Nazione. Ma per parlare di questi perversi – sempre pronti a lasciare in vita chi non lo merita e ad uccidere chi non ha mai esplicitamente detto di volersene andare – ci sarà il tempo. Purtroppo per noi.

Una cosa mi appare certa: che la volontà di Eluana non era assolutamente chiara. Un “testamento biologico”, quel documento redatto da noi stessi che (pur con le dovute misure e limitazioni), secondo diverse proposte di legge, dovrebbe “certificare” ed “ufficializzare” la nostra volontà in caso di situazioni simili, avrebbe risolto sicuramente il problema. Io mi auguro che su questo il Parlamento italiano faccia il suo dovere, ma una cosa è certa: Eluana non ha mai firmato un testamento biologico. E io vorrei una Nazione in cui, tra vedere e non vedere, si privilegi la vita al posto della morte. L’immagine di Eluana Englaro che lotta disperatamente per due giorni, privata di cibo e di acqua, prima di arrendersi, è un’immagina che fa male. Molto male. Non si è avuto neanche il coraggio di ucciderla: l’hanno fatta morire. Per me è peggio. E’ più vigliacco, è più grave.

sabato 7 febbraio 2009

Williamson non ritratta

La notizia di queste ore è che il vescovo Williamson afferma di non voler ritrattare le sue posizioni sull’Olocausto. Richard Williamson vuole prima le prove di quello che è presumibilmente accaduto agli ebrei nella seconda guerra mondiale.

Che dire? Innanzitutto va detto che Williamson ha coraggio. Quanti di voi, con la loro foto sbattuta in prima pagina su tutti i principali quotidiani del mondo, accusati di essere antisemiti, filoterroristi, ignoranti, negazionisti ed antiebraici, non sarebbero tentati dal chinare solennemente il capo all’unica religione rimasta? Per esperienza, anche di persone che ho conosciuto personalmente, la tentazione di mollare tutto in questi casi è forte. Mi viene in mente, a questo proposito, il mese di maggio di qualche anno fa, quando l’Unione Sarda pubblicò una mia risposta ad un articolo di questo giornale che, in maniera subdola, collegava me e il MFL ad un movimento politico oggetto di indagine da parte della Magistratura, fondato da alcuni militanti ex MFL. Niente di particolare rispetto a Williamson, sia chiaro. Non abbiamo certo così tanta importanza. Però ricevetti tante telefonate di accuse, diversi messaggi di insulti nella mia casella di posta elettronica, ebbi difficoltà a tenere i rapporti anche con persone a me care. E tutto questo per un articoletto al quale, grazie anche alla correttezza dell’Unione Sarda (le rettifiche a mezzo stampa sono stabilite dalla legge, ma non sarebbe stata la prima volta che avremmo dovuto far valere il nostro diritto a rispondere ad articoli denigratori e diffamatori dentro i tribunali), mi è stato permesso di rispondere e di fare alcune precisazioni.

Immaginate la pressione intorno al vescovo Williamson, che ha avuto l’ardire di contraddire l’unica religione rimasta. Mentre tutte le altre religioni e i loro rappresentanti possono essere insultate e dileggiate (cito a memoria la copertina de Il Manifesto dopo l’elezione di Papa Ratzinger, che intitolava così: “Il Pastore tedesco”; e le famose vignette blasfeme sui musulmani e su Maometto pubblicate su diversi giornali europei; oppure quella commedia, presentata qualche anno fa e poi ritirata, intitolata significativamente “La Madonna piange sperma”), ciò non può essere fatto per l’Olocausto. Che è, a tutti gli effetti, una religione: come ogni religione ha i suoi dogmi (i forni crematori di Auschwitz, i sei milioni di ebrei morti, il piano di sterminio nazista), i suoi martiri, i suoi apostoli (Wiesenthal, gli Istituti della Shoà), le sue liturgie (la visita allo Yed Vashem, che deve compiere ogni politico che si rispetti). Una religione sulla quale non si possono fare domande e, a quanto apprendiamo, neanche chiedere le prove.

Cosa ha fatto infatti Williamson di così tanto deplorevole? Ha chiesto una cosa semplicissima: le prove del presunto olocausto. Per gli storici non dovrebbe essere difficile mettere a tacere un eretico su un argomento simile, che è ancora oggi occasione di ampi dibattiti, di ricorrenze, di giornate della memoria, di manifestazioni pubbliche, di saggi storici, di speciali alla tv, e via dicendo. Da un altro punto di vista, questa potrebbe (e dovrebbe) essere l’occasione per mettere a tacere per sempre le voci revisioniste e negazioniste, relegando i revisionisti nell’oblio e nella damnatio memoriae. Eppure tutti gridano e si strappano le vesti contro Williamson, ma, badate bene, sempre senza entrare nel merito di quanto il vescovo dice ed afferma. Furbescamente, infatti, il problema è stato spostato non sulla veridicità o meno delle affermazioni del vescovo lefebvriano, ma sul dialogo tra le religioni, terreno ben più morbido e meno paludoso di quello più propriamente storico e “tecnico” che, del resto, non tutti i politici italiani sono in grado di fare.

La verità è questa: come il buon vino, il revisionismo più diventa vecchio e più prende piede. Perché una corrente storica i cui esponenti sono arrestati (come David Irving, che sconta il carcere in Austria per un delitto di opinione, almeno teoricamente bandito nella democraticissima Europa), pestati a sangue e intimiditi (Robert Faurisson, nella foto a destra) o “semplicemente” dileggiati e perseguitati penalmente (Ernst Zundle), senza che si faccia alcunchè per confutare le loro tesi, spinge molti a pensare che queste idee e proposte di analisi storica siano sostanzialmente corrette e sensate, ma pericolose per il potere.

lunedì 2 febbraio 2009

Notizie (censurate) da Gaza


I nostri giornalisti lo sanno benissimo, eppure lo tacciono ampiamente: la crisi umanitaria a Gaza si aggrava sempre di più. La motivazione è sempre la solita: Israele, che non vuole trattare con quei cattivissimi di Hamas (nonostante la piena legittimità democratica dell’organizzazione), ha chiuso tutti i valichi di entrata e di uscita. Con i terroristi non si tratta, e nel frattempo la popolazione di Gaza può pure crepare (ancora di più, si intende). I cagnolini europei cercano di trovare una soluzione: la Francia ha da poco provato a fare la voce grossa, dicendo che Hamas è, lo si voglia o no, un soggetto con il quale si deve trattare (anche perché, aggiungo io, è l’unica organizzazione ad avere un reale radicamento politico e anche logistico nel territorio palestinese): la crisi umanitaria deve avere la precedenza sulle considerazioni politiche del povero staterello che lotta per la sua esistenza. Inutile dire che la grossa Europa – sempre in prima fila l’Italia – ha boicottato l’iniziativa francese, che almeno per ora si è risolta in un nulla di fatto.

Sempre in tema di Francia, quest’ultima ha recentemente richiamato l’ambasciatore israeliano per protestare ufficialmente contro l’umiliazione che ha subito, in territorio di confine, un diplomatico francese, che è diventato per qualche ora il bersaglio preferito dei tiratori israeliani. Un altro esempio di umanità e di grande considerazione da parte di Israele nei confronti della comunità internazionale.

L’organizzazione americana “Peace Now” (“Pace adesso”), che si batte per i diritti umani, denuncia che nella Cisgiordania gli insediamenti illegali sono aumentati del 60% in neanche due anni. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. E invece no. Perché la Cisgiordania è governata da Fatah, l’organizzazione con la quale Israele fa capire, almeno a parole, di voler trattare per risolvere la crisi umanitaria palestinese, scavalcando di fatto Hamas. Per chi non lo avesse ancora capito, questa è un’altra occasione per capire quale sia la concezione di Israele quando parla di “trattare”, “discutere” o “mettersi al tavolo delle trattative”. In presenza di Fatah collaborazionista lo Stato sionista espande i suoi insediamenti illegali, facendo irruzione nelle case e nei negozi palestinesi depredandoli di tutto, e proteggendo i fanatici coloni che tirano le pietre ai bambini che vanno a scuola, o che danneggiano i raccolti palestinesi. Ecco che cosa succede a trattare con Israele.

La settimana scorsa i media strombazzavano la notizia di una rottura del cessate il fuoco da parte palestinese, che avrebbe ucciso un soldato delle IDF: ecco tutti che parlano di palestinesi che capiscono solo la forza. Peccato che Israele, però, aveva già violato il già fragilissimo cessate il fuoco almeno sette volte in precedenza. Ecco un riassunto veloce:

18 gennaio: a Khan Yunis lo Tsahal uccide un contadino palestinese;
19 gennaio: altro palestinese ucciso a Jabalia;
20 gennaio: le navi militari israeliane hanno cannoneggiato i pescatori di Gaza, causando diversi danni alle infrastrutture, fortunatamente senza uccidere;
22 gennaio: viene ferito un bambino palestinese
22 gennaio: altro attacco, da parte delle navi con la stella di David, che porta al ferimento di alcuni pescatori palestinesi in mare aperto;
22 gennaio: viene distrutta una casa palestinese
24 gennaio: Israele apre il fuoco ad Al Faraheen, provocando diversi danni alle infrastrutture
28 gennaio: viene ucciso un altro contadino palestinese e occupata una casa; vengono anche distrutte diverse altre case

Saltiamo negli Stati Uniti. Il nuovo Segretario di Stato, Hillary Clinton, sempre particolarmente ben disposta nei confronti del povero staterello, incassa la mozione di 60 parlamentari democratici, che richiedono al governo americano una iniziativa forte per impedire un aggravarsi della crisi umanitaria a Gaza.

Andiamo in Spagna. Come sappiamo, questo Stato si è dotato di una legislazione che gli permette di aprire cause giudiziarie contro chiunque nel mondo se si tratta di violazioni dei diritti umani. Sono incriminati diversi esponenti dello Stato ebraico. Non sarà molto, ma se questi personaggi dovessero trovarsi sul suolo spagnolo possono essere trattenuti in attesa di processo.
Anche la Croce Rossa Internazionale, nel frattempo, sta raccogliendo una ampia documentazione che testimonierebbe le gravi violazioni dei diritti umani compiuti dai soldati israeliani a Gaza e l’utilizzo di armi non convenzionali; la stessa televisione inglese, nei giorni immediatamente successivi dell’operazione di macelleria denominata “Piombo fuso”, ha accertato l’utilizzo da parte di Israele di armi al fosforo bianco e delle cluster bombs (Israele si è rifiutata, recentemente, di sottoscrivere la moratoria che mette al bando tali armi; ne ho parlato qui http://chessaandrea.blogspot.com/2008/12/gli-unici-due-veri-stati-canaglia.html).

In futuro potremo vedere una seconda Norimberga, stavolta per crimini accaduti davvero?