domenica 26 luglio 2009

In ricordo di Manlio Morgagni

Ricevo e inoltro.
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L'ultimo periodo della vita di Manlio Morgagni è tormentato da una chiusa crescente ansia per le condizioni del Paese.
Nel novembre del '42 cominciarono le sue preoccupazioni. La salute del Duce è cagionevole; per Lui è una acutissima spina nel cuore. La guerra va male; l'interno mormora. L'autunno è sempre stato contrario al successo delle nostre armi. Si spera molto nella primavera che verrà. Il mese di dicembre è tristissimo. Per cause diverse Morgagni si stabilisce a Roma. La casa, non ancora finita, lo rende nervoso; sa che gli è necessaria, eppure non vorrebbe condurla a termine. Soffre di tale necessità, e invece la chiama superflua. Il suo spirito si dibatte fra questi primi contrasti. Nel gennaio del '43 ricorre il venticinquesimo dell'unione con la sua compagna. Di ritorno da un viaggio all'estero, è chiamato dal Duce proprio nel giorno in cui cade il lieto anniversario. Nel colloquio vi accenna. Il Duce gli dà una fotografia con affettuosa dedica per la sua Bice. Orgoglioso, gliela porta, come il più bel regalo. Dopo qualche giorno Tripoli cade. Il tradimento che si ordisce per far crollare il Fascismo comincia a produrre i suoi effetti.
Segue tutto un periodo fosco. Manlio sente che forze occulte minano l'interno del Paese e la compagine dello stesso Partito; si agita per individuarle, ma invano. Sventa calunnie, smentisce dicerie, combatte tutt'uomo contro il malanimo del popolo, ormai avvelenato da una propaganda subdola e deleteria. Le nostre armate libiche continuano a retrocedere. Il fermento cresce, si estende, minaccia. Morgagni se ne dispera. Comincia a dubitare vi si possa porre riparo. Anche la sua Stefani è insidiata. Un attacco ingiusto aumenta il suo smarrimento. Non può ammettere che esista tanta perfidia da voler attaccare nel suo prestigio l'organismo cui Egli ha dato vent'anni di appassionato lavoro per farne strumento di bene al Paese. Il Duce, con un comunicato tempestivo, gli dà una soddisfazione meritata; del che Morgagni Gli sarà, come sempre, riconoscente.
Ma anche in seno all'Agenzia si svolge un lavorìo subdolo e corrosivo. Per quella lealtà romagnola che in Lui, come in tutti gli esseri forti e generosi, si accompagna ad una eccessiva buonafede, Egli non può neanche lontanamente sospettare che si cerchi di colpire Lui stesso per tradire il suo grande Amico. Si trama, per strappargli la "Stefani" elemento motore della stampa e della vita pubblica. Infine, comprende. Ma la sua salute, già scossa, deperisce giorno per giorno.
La sua compagna avverte, sgomenta, questo progressivo indebolirsi delle sue energie, e richiama l'attenzione del medico amico. Cerca sempre di rincorare il suo Manlio con la certezza che il Duce saprà capovolgere la situazione. Ma tutto precipita ormai. L'invasione della Sicilia lo porta alla disperazione. Vive giornate in cui la sua mente è lontana dai familiari. Si ciba pochissimo e di malavoglia, solo dietro le ripetute insistenze di chi gli vuol bene.
Alcune frasi turbano la sua compagna: "Se toccano il mio Duce, ricordati : scompaio anch'io. Nè con gli uni nè con gli altri non andrò mai". Ma essa, per l'immenso affetto che gli porta, non può ammettere che quel proposito debba attuarsi. Al primo bombardamento di Roma Egli decide di allontanare la vecchia zia Cesira e la sua Bice; ma esse non vogliono lasciarlo. "Potrebbe accadere qualcosa di grave: uno sbarco... Come fareste voi?... No, no, ho bisogno di esser solo, e di sapervi al sicuro". Alla fine, esse debbono cedere; il 22 luglio partono per recarsi presso Irma, la sorella di Lui, a Gallignano, nel cremonese, dov'Egli promette di raggiungerle presto. È la vigilia angosciosa. Dall'apertura del Gran Consiglio vive in una spasmodica attesa. È sempre attaccato al telefono per avere notizie da Palazzo Venezia, dal Viminale. Nulla. Silenzio da ogni parte. È schiantato dal dubbio di qualche colpo di scena. Tutta la notte dal 24 al 25 si fa tenere compagnia dall'amico Giuseppe Campanelli per vegliare insieme e insistere ancora presso la "Stefani". Al mattino, dopo aver scritto parecchio, esce per recarsi al suo ufficio, donde potrà anche tenersi più agevolmente a contatto coi Ministeri. Allo svolto di Via Massimo vede per l'ultima volta l'auto che porta il suo Duce a Palazzo Venezia. Dal suo tavolo di lavoro scrive una lettera abbastanza serena alla sua Bice. Ritorna a casa, ma sempre senza notizie. Insiste nuovamente per averne dal suo ufficio. Nulla. Il Direttore politico, protòtipo dell'italiano traditore di quel fosco periodo, lo tiene all'oscuro di tutto, mentre egli tutto sa.
Morgagni non ha più pace, ma a due amici che gli sono vicini e lo colmano di attenzioni, si mostra calmo, forse per eludere la loro vicinanza. Alla fine, si accomiata da essi con una frase insolita: "Sia fatta la volontà di Dio". Durante la giornata, a mezzodì, aveva fatto telefonare a sua moglie, ansiosa di notizie, che Egli sta bene e raccomanda a Lei e ai familiari di stare tranquilli. Tale l'ultimo saluto alla sua donna, ignara di quanto si sta preparando ai danni del Duce e di conseguenza al suo Manlio.
Alle ventidue squilla il telefono. L'uomo di Badoglio, il Direttore politico, dà la terrificante notizia delle dimissioni di Mussolini e forse del suo arresto. Morgagni è solo, nella disperazione del crollo. La sua luce si è spenta. Non è finito tutto per Lui? Infatti le sue ultime parole sono testualmente queste: "Il Duce si è dimesso. Il Re ha dato il Governo a Badoglio. La mia vita è finita. Viva Mussolini". Unico testimone della tragedia: il ritratto della sua compagna che Egli s'era posto dinanzi e che aveva voluto sempre vicino, nella sua camera. L'espressione della inconsapevole giovinetta diciottenne sembra velata da uno stupore smarrito: ha visto... La sua Bice, la sorella Irma, il marito sono accorsi a Roma. Vi trovano lettere di estremo saluto commoventissime.
Seguono giorni tristissimi, dolorosissimi. Molti dei creduti amici non si fanno vedere. Pochi coraggiosi hanno recato omaggio di fiori alla salma di Morgagni. La tragedia fascista è al culmine. Del Duce, per il quale ha dato la vita nella disperata certezza di non rivederlo più, nessuna notizia, o soltanto supposizioni. La salma ricomposta e vestita della sua divisa fascista, dai fratelli Campanelli è vegliata dai familiari e dai pochi amici rimasti. Al crepuscolo del 28 un breve e mesto corteo (altro non era consentito nei giorni sciagurati) esce dalla casa di Lui, accompagnandone la spoglia mortale in muta reverenza. Ancora si osa il saluto romano. Inquilini, passanti, umile gente che ne ha compreso il sacrificio, levano alto la destra in segno di omaggio. Anche la sua Bice, la sua compagna, dominando l'intimo strazio, è là, sulla soglia, col braccio proteso, quasi a testimoniare fieramente che la fede di Lui — quella fede che gli ha dato vita per trent'anni — continuerà fermissima in lei. Tutto ha osato col suo Compagno e tutto ancora oserà.
A Milano, pochi fiori: la sua Bice, i familiari, i pochi amici che hanno saputo della traslazione: Poli, Volpi, Vallicelli, che si è prodigato come un figlio, ma anche con l'ammirazione e la devozione di un discepolo. Dal suo testamento spirituale:"Se proprio la mia giornata dovesse aver termine, Bice sappia: Che al mondo io sono vissuto in fede e in bontà. Nulla ho mai fatto di male a nessuno. Ho prodigato più che mi fosse possibile il Bene. Non ho mai atteso riconoscenza o benemerenze. La mia coscienza non ha mai nulla temuto. Sono vissuto nel lavoro con onestà, metodo e volontà. Ho amato religiosamente la Famiglia e un Uomo: Benito Mussolini. A lui ho dedicato metà della mia vita. Lo seguii agli inizi della sua "Audacia", con la passione di una salda amicizia e ho proseguito a servirlo con la fede e la dedizione di gregario che al mondo ha avuto un solo "credo": Benito Mussolini, Duce del Fascismo. Al risorgere di Mussolini, la vedova si presenta a Lui, desiderosa di rendegli omaggio e di conoscere il suo pensiero sulla scomparsa del fedelissimo Morgagni. Ne è accolta con amabilità paterna. Il dolore cagionatogli dalla perdita del suo amico è manifesto nelle parole che Egli scandisce: "Il suo atto è spiegabile: non voleva assistere a questo orrore." E ne elogia la fedeltà e l'intelligente operosità. All'affermazione: "Duce, vi adorava" risponde: "Lo ha dimostrato". In seguito, richiesto dalla vedova, detta questa significativa epigrafe per la sua sepoltura:

QUI
NEL SONNO SENZA RISVEGLIO
RIPOSA MANLIO MORGAGNI
GIORNALISTA PRESIDENTE DELLA "STEFANI"
PER LUNGHI ANNI
UOMO DI SICURA INTEGRA FEDE
NE DIEDE - MORENDO - TESTIMONIANZA NEL TORBIDO 25 LUGLIO 1943

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