Gli italiani che, specialmente a sinistra, vedono in Barack Obama “l’uomo nuovo” che può imprimere una netta svolta alla politica americana, dovrebbero leggere e documentarsi bene sugli ultimi due discorsi del candidato democratico pronunciati a Berlino e Israele, utilissimi di per se stessi a sbollire le piacevoli ambizioni dei comunisti nostrani e a mostrare che, repubblicani o democratici, sarà sempre la stessa minestra. Se infatti prendessimo le parole pronunciate dal candidato democratico alla Casa Bianca, e le accostassimo al nome del criminale di guerra Bush, noteremmo che non vi è alcuna differenza tra l’uno e l’altro, perlomeno in politica estera; argomento che, contrariamente all’Italia, il cui peso internazionale è pressoché nullo, essendosi questa ridotta ad essere non più di una colonia americana, è uno dei cavalli di battaglia anche del politico americano più insignificante.
Dopo le ultime due comparse del probabile primo Presidente americano di colore, la prima in Israele allo Yed Vashem (il simbolo della favola olocaustica dove chiunque deve inginocchiarsi con la kippià per avere la benedizione del padrone) e la seconda a Berlino, appare ancora più giustificato lo scetticismo di coloro (tra i quali il sottoscritto) che non hanno mai banalizzato lo scenario politico americano, collocando aprioristicamente i repubblicani a destra e i democratici a sinistra come sembra di moda fare ultimamente. Pur augurandoci di non vedere più il criminale Bush in qualunque posto che non sia un tribunale che giudichi i suoi crimini e quelli dei suoi sodali (e stavolta per giustiziare questi plutocratici basterebbe usare le leggi vigenti, senza il bisogno di inventarsene di nuove da applicare in processi-farsa come quelli di Norimberga), non va dimenticato che se la dicotomia destra-sinistra è oramai improponibile in Italia (dove un esercito di parassiti composto da politici, mafiosi, massoni, burocrati, enti pubblici lucra e si ingrassa a spese della maggior parte della popolazione) ancor meno lo è negli Stati Uniti, dove le lobbies (in particolare quella sionista, che, come hanno dimostrato Marsheimer e Walt, è riuscita a instradare tutta la politica americana nel senso voluto da Israele) la fanno da padrone. E Obama, nelle sue recenti apparizioni pubbliche, non ha fatto altro che confermare platealmente quella che solo per gli ingenui non è una evidenza.
In Israele le parole d’ordine sono state: posizione anti-iraniana, con eventuale ricorso alla violenza per bloccare la riorganizzazione del nucleare civile di Teheran (“Il nucleare iraniano è un pericolo per tutta l’umanità”: anche quello a scopo civile?); la lotta contro il terrorismo islamico e internazionale, che significa nient’altro che la costante minaccia e il perenne conflitto contro tutti quegli Stati non schierati apertamente con la politica mondialista americana; il sostegno ad Israele, di cui Obama si è vantato di essere un grande amico e un grande estimatore, condensato in due perle degne di nota quali “Gerusalemme capitale di Israele” e l’accenno ai doveri dei palestinesi (non ho mai sentito qualcuno, men che meno americano, parlare di doveri degli israeliani, ma sarà solo una mia impressione).
Discorso diverso a Berlino: cooperazione Europa-USA, che di fatto significa uno schiavizzamento ancora maggiore del vecchio continente nei confronti degli Stati Uniti (“L’Afghanistan non può farcela da solo. Il popolo afgano ha bisogno delle vostre truppe e delle nostre truppe”), con tanto di altra frase ad effetto “Dobbiamo abbattere tutti i muri” (tranne quello alto più di nove metri costruito dagli israeliani in Cisgiordania, si intende).
Ora: cosa c’è di diverso dai discorsi di Bush? In che cosa il programma elettorale del democratico Obama si distingue da quello dei repubblicani?
Per chi vuole vedere, anche da queste semplicissime considerazioni si capisce che repubblicani e democratici sono un unico blocco monolitico le cui due correnti principali si alternano nella gestione del potere, attuando gli stessi identici programmi e le stesse soluzioni in ogni settore. Ma del resto, si sa, la sinistra e i comunisti sono sempre alla perenne ricerca di miti e di capi, ancor meglio se stranieri, ai quali votarsi religiosamente. Ieri era Mussolini (quando ancora non aveva visto il vero volto del socialismo di cui poi diventerà, dopo essere stato il capo, il più fiero degli avversari), poi c’è stato Fidel Castro, per arrivare ai giorni nostri con Chavez e Tony Blair (ricordate quando Rutelli, se non mi sbaglio era lui, che lo definì uno dei migliori uomini della sinistra europea?). Ancora oggi resiste, nella classifica degli amori più irriducibili della sinistra, Zapatero. Oggi è Barack Obama. Immediatamente prima di lui fu Bill Clinton l’ultimo grande amore americano dei comunisti “de no’artri”. Che poi Obama, se sarà eletto Presidente, sarà l’ennesima delusione dei sinistri d’Italia, è un altro discorso. Del resto, quando accetti di essere rappresentato da un borghese con la falce e il martello come Diliberto, o da un travestito come Luxuria, ti basta poco per essere felice.
Dopo le ultime due comparse del probabile primo Presidente americano di colore, la prima in Israele allo Yed Vashem (il simbolo della favola olocaustica dove chiunque deve inginocchiarsi con la kippià per avere la benedizione del padrone) e la seconda a Berlino, appare ancora più giustificato lo scetticismo di coloro (tra i quali il sottoscritto) che non hanno mai banalizzato lo scenario politico americano, collocando aprioristicamente i repubblicani a destra e i democratici a sinistra come sembra di moda fare ultimamente. Pur augurandoci di non vedere più il criminale Bush in qualunque posto che non sia un tribunale che giudichi i suoi crimini e quelli dei suoi sodali (e stavolta per giustiziare questi plutocratici basterebbe usare le leggi vigenti, senza il bisogno di inventarsene di nuove da applicare in processi-farsa come quelli di Norimberga), non va dimenticato che se la dicotomia destra-sinistra è oramai improponibile in Italia (dove un esercito di parassiti composto da politici, mafiosi, massoni, burocrati, enti pubblici lucra e si ingrassa a spese della maggior parte della popolazione) ancor meno lo è negli Stati Uniti, dove le lobbies (in particolare quella sionista, che, come hanno dimostrato Marsheimer e Walt, è riuscita a instradare tutta la politica americana nel senso voluto da Israele) la fanno da padrone. E Obama, nelle sue recenti apparizioni pubbliche, non ha fatto altro che confermare platealmente quella che solo per gli ingenui non è una evidenza.
In Israele le parole d’ordine sono state: posizione anti-iraniana, con eventuale ricorso alla violenza per bloccare la riorganizzazione del nucleare civile di Teheran (“Il nucleare iraniano è un pericolo per tutta l’umanità”: anche quello a scopo civile?); la lotta contro il terrorismo islamico e internazionale, che significa nient’altro che la costante minaccia e il perenne conflitto contro tutti quegli Stati non schierati apertamente con la politica mondialista americana; il sostegno ad Israele, di cui Obama si è vantato di essere un grande amico e un grande estimatore, condensato in due perle degne di nota quali “Gerusalemme capitale di Israele” e l’accenno ai doveri dei palestinesi (non ho mai sentito qualcuno, men che meno americano, parlare di doveri degli israeliani, ma sarà solo una mia impressione).
Discorso diverso a Berlino: cooperazione Europa-USA, che di fatto significa uno schiavizzamento ancora maggiore del vecchio continente nei confronti degli Stati Uniti (“L’Afghanistan non può farcela da solo. Il popolo afgano ha bisogno delle vostre truppe e delle nostre truppe”), con tanto di altra frase ad effetto “Dobbiamo abbattere tutti i muri” (tranne quello alto più di nove metri costruito dagli israeliani in Cisgiordania, si intende).
Ora: cosa c’è di diverso dai discorsi di Bush? In che cosa il programma elettorale del democratico Obama si distingue da quello dei repubblicani?
Per chi vuole vedere, anche da queste semplicissime considerazioni si capisce che repubblicani e democratici sono un unico blocco monolitico le cui due correnti principali si alternano nella gestione del potere, attuando gli stessi identici programmi e le stesse soluzioni in ogni settore. Ma del resto, si sa, la sinistra e i comunisti sono sempre alla perenne ricerca di miti e di capi, ancor meglio se stranieri, ai quali votarsi religiosamente. Ieri era Mussolini (quando ancora non aveva visto il vero volto del socialismo di cui poi diventerà, dopo essere stato il capo, il più fiero degli avversari), poi c’è stato Fidel Castro, per arrivare ai giorni nostri con Chavez e Tony Blair (ricordate quando Rutelli, se non mi sbaglio era lui, che lo definì uno dei migliori uomini della sinistra europea?). Ancora oggi resiste, nella classifica degli amori più irriducibili della sinistra, Zapatero. Oggi è Barack Obama. Immediatamente prima di lui fu Bill Clinton l’ultimo grande amore americano dei comunisti “de no’artri”. Che poi Obama, se sarà eletto Presidente, sarà l’ennesima delusione dei sinistri d’Italia, è un altro discorso. Del resto, quando accetti di essere rappresentato da un borghese con la falce e il martello come Diliberto, o da un travestito come Luxuria, ti basta poco per essere felice.
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