tratto da: www.lavvocatodeldiavolo.biz (blog del Segretario Nazionale MFL Carlo Gariglio)
Pubblicato nel: MARZO 2008
Da: Tomislav Sunic
NOTA 1) questo articolo è un adattamento del discorso del Dr. Sunic del 22 Giugno 2002 alla 14° Conferenza dell’Istituto di Revisionismo Storico (IHR – Insistute of Historical Review) a Irvine in California.
NOTA 2) Tomislav Sunic detiene un dottorato in scienze politiche dell’Università della California di Santa Barbara. E’ scrittore, traduttore ed ex docente di scienze politiche negli USA. Sunic vive attualmente con la sua famiglia in Croazia. Una sua intervista “riesaminare le ipotesi“ è stata pubblicata nel numero di Marzo-Aprile 2002 del Journal of Historical Review (periodico di revisionismo storico). Il suo libro più recente è: Homo Americanus: bambino dell’era post-moderna (2007), disponibile prezzo la Amazon Books.
Per visionare altri suoi articoli consigliamo visitare il suo sito: doctorsunic.netfirms.com
Le perdite militari e civili tedesche durante e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale sono ancora avvolte da un velo di silenzio, quantomeno nei mass-media, anche se sull’argomento esiste un’ampia letteratura.
Questo silenzio, dovuto in gran parte alla negligenza accademica, ha radici profonde e merita un’indagine più accurata.
Perché, ad esempio, le perdite civili tedesche e in particolare quelle gigantesche, avvenute dopo la guerra dei cittadini di etnia tedesca, vengono affrontate così sommariamente nei manuali storici scolastici?
I mass-media – televisioni, giornali, film e riviste – raramente, o per niente affatto, si occupano della sorte dei milioni di civili tedeschi nell’Europa Centrale e Orientale durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il trattamento inflitto ai cittadini di origine tedesca, meglio conosciuti come “Volksdeutsche” in Yugoslavia dopo il 1945 può essere considerato come un caso classico di “pulizia etnica su grande scala”.
Un attento esame di questi massacri di massa presenta dei problemi storici e legali, soprattutto quando si esamina la moderna legge internazionale e più precisamente quella che “fonda” il Tribunale dei Crimini di Guerra dell’Aja che si occupa dei crimini bellici avvenuti nei Balcani nel 1991-1995.
Pertanto la triste sorte dei cittadini di etnia tedesca di Yugoslavia durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale non dovrebbe essere occultata. Anzi, una buona comprensione del destino di questi tedeschi deve incoraggiare allo scetticismo per quanto riguarda l’applicazione dell’odierna legge internazionale.
Perché le sofferenze di certe nazioni e di certi gruppi etnici vengono ignorate, mentre quelle di altre nazioni ricevono l’attenzione dei media e dei politici occidentali?
All’inizio del secondo conflitto, nel 1939, oltre un milione e mezzo di cittadini tedeschi viveva nell’Europa Sud-Orientale, cioè in Yugoslavia, Ungheria e Romania. Per via della loro ubicazione lungo le rive del Danubio, questa gente era conosciuta col nome popolare di “Svevi del Danubio” (Donauschwaben).
La maggior parte di loro discendeva dai coloni che vennero in questa fertile regione nel 17° e 18° secolo, in seguito alla liberazione dell’Ungheria dal giogo turco.
Per secoli il Sacro Romano Impero prima e l’Impero Asburgico dopo, lottarono contro la dominazione turca nei Balcani e resistettero alla “islamizzazione” dell’Europa.
In questa lotta i tedeschi del Danubio erano visti come la roccaforte della civiltà occidentale ed erano altamente stimati dall’impero austriaco per via della loro produttività agricola e per le loro prodezze militari.
Il Sacro Romano Impero e quello asburgico erano entità multiculturali e multietniche nel vero senso della parola, nelle quali vissero gruppi etnici diversi per secoli in una relativa armonia.
Dopo la fine della 1°. Guerra Mondiale, nel 1918, che provocò lo sfaldamento dell’Impero Austro-Ungarico degli Asburgo e dopo il Trattato di Versailles del 1919, lo statuto giuridico dei Donauschwaben (svevi o tedeschi del Danubio) divenne incerto.
Quando il regime nazionalsocialista prese il potere in Germania nel 1933, i cittadini di etnia tedesca ammontavano a più di 12 milioni che vivevano nell’Europa Centrale e Orientale al di fuori delle frontiere del Reich tedesco.
Molte di queste persone furono incluse nel Reich in seguito all’annessione dell’Austria e della regione dei Sudati nel 1938, della Cecoslovacchia nel 1939 e di parti della Polonia alla fine del 1939.
La “questione tedesca”, cioè la lotta per l’autodeterminazione dei cittadini di origini tedesche al di fuori delle frontiere del Reich tedesco, fu un fattore importante nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Anche dopo il 1939 più di 3 milioni di oriundi tedeschi restarono al di fuori delle frontiere allargate del Reich, più precisamente in Romania, Yugoslavia, Ungheria e Unione Sovietica.
Il primo stato yugoslavo, 1919-1941, aveva una popolazione di circa 14 milioni di persone di diverse culture e religioni.
Alla vigilia del 2° conflitto mondiale la Yugoslavia includeva circa 6 milioni di serbi, circa 3 milioni di croati, oltre un milione di sloveni, circa 2 milioni di bosniaci musulmani, 1 milione di oriundi albanesi del Kosovo, circa mezzo milione di oriundi tedeschi ed un altro mezzo milione di oriundi ungheresi.
Dopo il crollo della Yugoslavia, nell’Aprile 1941, seguito da una rapida avanzata militare tedesca, circa 200.000 cittadini di origine tedesca divennero automaticamente cittadini dello Stato Indipendente di Croazia nuovamente ristabilito, un paese le cui autorità militari e civili rimasero alleate del Terzo Reich fino all’ultima settimana di guerra in Europa.
I restanti oriundi tedeschi, circa 300.000 nella regione della Voivodina, passarono sotto la giurisdizione ungherese che incorporò questa regione durante la guerra (dopo il 1945 questa regione fu riannessa alla parte serba della Yugoslavia).
Il destino degli oriundi tedeschi si fece sinistro durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto dopo la fondazione della seconda Yugoslavia, uno stato comunista multietnico diretto dal Maresciallo Josip Broz Tito.
Verso la fine dell’Ottobre 1944 le forze partigiane di Tito, aiutate dall’avanzata sovietica e generosamente assistite dalle forniture aeree degli Alleati occidentali, presero il controllo di Belgrado, la capitale serba che divenne, in seguito, la capitale della nuova Yugoslavia.
Uno dei primi atti giuridici del nuovo regime comunista fu il decreto del 21 Novembre 1944 circa “la decisione riguardante il trasferimento dei beni del nemico nella proprietà dello Stato”.
Esso dichiarava “nemici del popolo” i cittadini di origine tedesca e li privò dei diritti civili.
Il decreto ordinava anche la confisca da parte del governo di tutti i beni, senza compensazione, dei tedeschi di Yugoslavia. Una legge supplementare, promulgata a Belgrado il 6 Febbraio 1945, tolse la cittadinanza yugoslava ai tedeschi che vivevano nel paese.
Alla fine del 1944, mentre le forze comuniste avevano già preso il controllo dell’est dei Balcani, cioè la Bulgaria, la Serbia e la Macedonia, la Stato della Croazia, alleato dei tedeschi, resisteva ancora bene. Tuttavia all’inizio del mese di Aprile del 1945, le truppe tedesche, assieme ai militari e civili croati, cominciarono la ritirata verso l’Austria meridionale, e più precisamente verso la Carinzia. Durante gli ultimi due mesi di guerra, la maggioranza dei civili di origine tedesca in Yugoslavia si unirono a questo grande esodo. La paura dei rifugiati davanti alla tortura e alla morte era più che fondata, visto l’orribile trattamento inflitto dalle forze sovietiche ai civili tedeschi nella Prussia orientale e in altre parti dell’Europa dell’est. Alla fine della guerra, nel Maggio del 1945, le autorità tedesche avevano evacuato circa 220.000 cittadini tedeschi di Yugoslavia verso la germania e l’Austria. Molti però restarono nella loro patria ancestrale devastata dalla guerra.
Dopo la fine dei combattimenti in Europa, l’8 Maggio 1945, più di 200.000 cittadini di etnia tedesca che erano rimasti nelle retrovie yugoslave, divennero a tutti gli effetti i prigionieri del nuovo regime comunista.
Ben 63.635 civili yugoslavi di origine tedesca (donne, uomini e bambini) perirono sotto il regime comunista fra il 1945 ed il 1950, cioè circa l’8% della popolazione civile tedesca. La maggior parte morirono di spossatezza nei lavori forzati e nella “pulizia etnica”, oppure di malattia e di malnutrizione.
Il “miracolo economico “ così tanto vantato dalla Yugoslavia titina e più tardi dai “sessantottini” occidentali, fu il risultato diretto del lavoro di migliaia di lavoratori forzati tedeschi che, alla fine degli anni 40, contribuirono a ricostruire il paese.
I beni dei tedeschi di Yugoslavia, confiscati dopo la Seconda Guerra Mondiale, erano rappresentati da 97.490 piccole attività commerciali, fabbriche, magazzini, fattorie e altre attività. I beni immobiliari e terre coltivate confiscati ammontavano a 637.939 ettari e divennero proprietà dello stato yugoslavo. Secondo un calcolo del 1982, il valore dei beni confiscati ai tedeschi di yugoslavia raggiungeva i 15 miliardi di marchi, cioè circa 7 miliardi di dollari americani. Tenendo conto dell’inflazione, ciò corrisponderebbe oggi a 18 miliardi di dollari americani.
Dal 1948 al 1985 più di 87.000 tedeschi che risiedevano ancora in Yugoslavia, si sono trasferiti in germania dove sono diventati automaticamente cittadini tedeschi.
Tutto ciò costituì la “soluzione finale della questione tedesca“ nella Yugoslavia titina.
Di un milione e mezzo di cittadini di etnia tedesca che vivevano nel bacino del Danubio nel periodo 1939-1941, circa 93.000 servirono durante la Seconda Guerra Mondiale nelle forze armate dell’Ungheria, della Croazia e della Romania, paesi dell’Asse alleati della Germania, oppure nelle forze armate regolari tedesche. I cittadini di etnia tedesca dell’Ungheria, della Croazia e della Romania che servirono nelle formazioni militari di questi paesi, restarono rispettivamente cittadini di questi paesi.
Inoltre numerosi di questi tedeschi della regione danubiana servirono nella divisione Waffen-SS “Prinz Eugen“, che raggruppava circa 10.000 uomini (questa formazione fu battezzata in onore del Principe Eugenio di Savoia che aveva ottenuto grandi vittorie contro le forze turche alla fine del XVII secolo e all’inizio del XVIII secolo nei Balcani). Arruolarsi nella divisione “Prinz Eugen“ conferiva automaticamente la cittadinanza tedesca al momento del reclutamento.
Dei 26.000 tedeschi danubiani che persero la vita servendo nelle diverse formazioni militari, la metà perì dopo la fine della guerra nei campi yugoslavi. Le perdite della divisione “Prinz Eugen“ furono particolarmente alte, essendosi il grosso della divisione arreso dopo l’8 Maggio 1945.
Circa 1.700 di questi prigionieri furono uccisi nel paese di Brezice nei pressi della frontiera croato-slovena e la restante metà morì nei lavori forzati delle miniere di zinco in Yugoslavia nei pressi della città di Bor, in Serbia.
A parte la “pulizia etnica“ dei civili e soldati tedeschi del Danubio, circa 70.000 tedeschi che avevano servito nelle forze regolari della Wehrmacht, perirono durante la prigionia in Yugoslavia. La maggior parte di essi morì durante le rappresaglie o come lavoratori forzati nelle miniere, costruendo strade, nei cantieri navali ecc.
Erano principalmente dei soldati del “Gruppo d’Armata E“ che si erano arresi alle autorità militari britanniche nel sud dell’Austria al momento dell’armistizio dell’8 Maggio 1945.
Le autorità britanniche consegnarono circa 150.000 di questi prigionieri ai partigiani yugoslavi comunisti col pretesto di un ulteriore rimpatrio in Germania.
La maggior parte di questi soldati regolari della Wehrmacht perirono nella Yugoslavia post-bellica in tre fasi.
Durante la prima fase più di 7.000 soldati tedeschi catturati morirono nelle cosiddette “marce di espiazione“ organizzate dai comunisti, facendo 1.300 kilometri dalla frontiera sud dell’Austria fino alla frontiera nord della Grecia.
Durante la seconda fase, alla fine dell’estate 1945, numerosi soldati tedeschi in prigionia furono sommariamente giustiziati o gettati vivi nelle grandi voragini carsiche [le foibe, nda] lungo la costa della Dalmazia, in Croazia.
Nella terza fase, dal 1945 al 1955, altri 50.000 perirono, come lavoratori forzati, di malnutrizione, stanchezza.
Il numero totale delle perdite tedesche durante la prigionia in Yugoslavia dopo la fine della guerra, includendo i civili e i soldati “tedeschi del Danubio“, nonché i tedeschi del Reich, può essere stimato sui 120.000, assassinati, morti per fame, uccisi sul lavoro o scomparsi.
Qual è l’importanza di queste cifre?
Che lezione si può imparare da queste perdite tedesche del dopoguerra?
E’ importante sottolineare che la triste sorte dei civili tedeschi dei Balcani altro non è che una piccola parte della topografia della morte comunista.
In totale, fra i 7 e i 10 milioni di tedeschi, personale militare o civile, morirono durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa ed in Unione Sovietica. La metà di essi perì negli ultimi mesi della guerra o dopo la resa incondizionata della Germania l’8 Maggio 1945. Le perdite tedesche, sia civili che militari, furono sensibilmente più elevate durante la “pace “ che durante la “guerra“.
Durante i mesi che precedettero e seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale, i cittadini di etnia tedesca furono uccisi, torturati ed espropriati in tutta l’Europa orientale e centrale, in particolare nella Slesia, nella Prussica orientale, in Pomerania e nei Sudati. In tutto dai 12 ai 15 milioni di tedeschi fuggirono o furono cacciati dalle loro abitazioni durante quello che probabilmente rimane la più grande “pulizia etnica“ della storia.
Di questo numero, più di due milioni di civili furono uccisi o persero la vita.
I genocidi comunisti nella Yugoslavia del dopoguerra vengono raramente affrontati dai media dei nuovi paesi nati dalle rovine della Yugoslavia comunista nel 1991, anche se oggi, in questi nuovi paesi, c’è una maggiore libertà di espressione e di ricerca storica che nei paesi dell’Europa occidentale.
Le elites post-comuniste di Croazia, Serbia e Bosnia, ampiamente composte da ex comunisti, sembrano condividere un interesse comune a rimuovere il loro passato criminale per quanto concerne il trattamento dei civili tedeschi.
Lo sfaldamento della Yugoslavia nel 1990-1991, gli avvenimenti che lo provocarono, nonché la guerra e le atrocità che ne seguirono, non possono essere compresi se non nel quadro delle grandi mattanze effettuate dai comunisti yugoslavi dal 1945 al 1950.
Come abbiamo già notato, la “ pulizia etnica “ non è niente di nuovo. Anche se si considera l’ex dirigente serbo Slobodan Milosevic e gli imputati croati attualmente sotto giudizio presso il Tribunale Internazionale dei Crimini di Guerra dell’Aja in qualità di criminali, i loro crimini di guerra, siano essi reali o presunti, restano minuscoli in confronto a quelli del fondatore della Yugoslavia comunista, Josip Broz Tito.
Tito effettuò la “ pulizia etnica “ e i massacri di massa su scala molto più ampia, contro i croati, i tedeschi e i serbi, spesso con l’avallo dei governi britannico e americano. Il suo regno in Yugoslavia (1945-1980) che coincise con la “guerra fredda“ fu in genere sostenuto dalle potenze occidentali che consideravano il suo regime come un fatture di stabilità in questa parte dell’Europa.
D’altra parte, la tragedia dei tedeschi dei Balcani impartisce una lezione sulla sorte degli stati multietnici e multiculturali. Due volte, durante il XX secolo, la Yugoslavia multiculturale, si trasformò in un carnaio inutile, scatenando una spirale di odio fra i gruppi etnici che la componevano.
Si può concludere, di conseguenza, che per delle nazioni e delle culture diverse, senza parlare di razze diverse, è meglio vivere a parte, separati da muri, piuttosto che vivere in una falsa convivialità che nasconde delle animosità e lascia dei risentimenti che durano nel tempo.
Poche persone potevano prevedere i selvaggi massacri interetnici che imperversarono nei Balcani dopo lo sfaldamento della Yugoslavia nel 1991 e questo fra popoli di origine antropologica relativamente simili. Non si può che porsi domande inquietanti circa il futuro degli Stati Uniti e della Francia dove tensioni fra popolazioni autoctone e masse allogene del Terzo Mondo lasciano presagire un disastro con conseguenze molto più sanguinose.
La Yugoslavia multiculturale fu, innanzitutto, la creazione dei dirigenti politici francesi, britannici e americani che firmarono il Trattato di Versailles nel 1919 e dei dirigenti politici britannici, sovietici e americani che si incontrarono a Yalta e a Potsdam nel 1945. Le figure politiche che crearono la Yugoslavia, così come fu concepita, non comprendevano affatto bene la percezione che le diverse popolazioni locali avevano di se stesse e di quelle vicine.
Nonostante le morti, le sofferenze e gli espropri subiti dai tedeschi dei Balcani durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale siano conosciute dalle autorità tedesche e dagli storici indipendenti, esse continuano ad essere ignorate dai grandi media degli Stati Uniti e dell’Europa.
Perché?
Si può dedurre che, se queste perdite tedesche fossero più ampiamente discusse e meglio conosciute, esse stimolerebbero probabilmente una visione alternativa della Seconda Guerra Mondiale e, infatti, di tutta la storia del XX secolo.
Una migliore conoscenza delle perdite civili durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale potrebbe incoraggiare una discussione sulla dinamica delle società multiculturali di oggi.
Ora, un procedimento simile, a sua volta rischierebbe di colpire fortemente le idee e i miti dominanti che plasmano l’Europa dal 1945.
Un dibattito aperto sulle cause e le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale offuscherebbe anche la reputazione di numerosi specialisti e opinionisti negli USA ed in Europa.
E’ probabile che una migliore conoscenza dei crimini commessi dagli Alleati durante e dopo il conflitto bellico, in nome della “ democrazia “ potrebbe cambiare i miti fondatori di numerosi Stati contemporanei.
TOMISLAV SUNIC (Scrittore)
tomislav.sunic@zg.htnet.hr
Traduzione a cura di: Gian Franco SPOTTI
Da: Tomislav Sunic
NOTA 1) questo articolo è un adattamento del discorso del Dr. Sunic del 22 Giugno 2002 alla 14° Conferenza dell’Istituto di Revisionismo Storico (IHR – Insistute of Historical Review) a Irvine in California.
NOTA 2) Tomislav Sunic detiene un dottorato in scienze politiche dell’Università della California di Santa Barbara. E’ scrittore, traduttore ed ex docente di scienze politiche negli USA. Sunic vive attualmente con la sua famiglia in Croazia. Una sua intervista “riesaminare le ipotesi“ è stata pubblicata nel numero di Marzo-Aprile 2002 del Journal of Historical Review (periodico di revisionismo storico). Il suo libro più recente è: Homo Americanus: bambino dell’era post-moderna (2007), disponibile prezzo la Amazon Books.
Per visionare altri suoi articoli consigliamo visitare il suo sito: doctorsunic.netfirms.com
Le perdite militari e civili tedesche durante e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale sono ancora avvolte da un velo di silenzio, quantomeno nei mass-media, anche se sull’argomento esiste un’ampia letteratura.
Questo silenzio, dovuto in gran parte alla negligenza accademica, ha radici profonde e merita un’indagine più accurata.
Perché, ad esempio, le perdite civili tedesche e in particolare quelle gigantesche, avvenute dopo la guerra dei cittadini di etnia tedesca, vengono affrontate così sommariamente nei manuali storici scolastici?
I mass-media – televisioni, giornali, film e riviste – raramente, o per niente affatto, si occupano della sorte dei milioni di civili tedeschi nell’Europa Centrale e Orientale durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il trattamento inflitto ai cittadini di origine tedesca, meglio conosciuti come “Volksdeutsche” in Yugoslavia dopo il 1945 può essere considerato come un caso classico di “pulizia etnica su grande scala”.
Un attento esame di questi massacri di massa presenta dei problemi storici e legali, soprattutto quando si esamina la moderna legge internazionale e più precisamente quella che “fonda” il Tribunale dei Crimini di Guerra dell’Aja che si occupa dei crimini bellici avvenuti nei Balcani nel 1991-1995.
Pertanto la triste sorte dei cittadini di etnia tedesca di Yugoslavia durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale non dovrebbe essere occultata. Anzi, una buona comprensione del destino di questi tedeschi deve incoraggiare allo scetticismo per quanto riguarda l’applicazione dell’odierna legge internazionale.
Perché le sofferenze di certe nazioni e di certi gruppi etnici vengono ignorate, mentre quelle di altre nazioni ricevono l’attenzione dei media e dei politici occidentali?
All’inizio del secondo conflitto, nel 1939, oltre un milione e mezzo di cittadini tedeschi viveva nell’Europa Sud-Orientale, cioè in Yugoslavia, Ungheria e Romania. Per via della loro ubicazione lungo le rive del Danubio, questa gente era conosciuta col nome popolare di “Svevi del Danubio” (Donauschwaben).
La maggior parte di loro discendeva dai coloni che vennero in questa fertile regione nel 17° e 18° secolo, in seguito alla liberazione dell’Ungheria dal giogo turco.
Per secoli il Sacro Romano Impero prima e l’Impero Asburgico dopo, lottarono contro la dominazione turca nei Balcani e resistettero alla “islamizzazione” dell’Europa.
In questa lotta i tedeschi del Danubio erano visti come la roccaforte della civiltà occidentale ed erano altamente stimati dall’impero austriaco per via della loro produttività agricola e per le loro prodezze militari.
Il Sacro Romano Impero e quello asburgico erano entità multiculturali e multietniche nel vero senso della parola, nelle quali vissero gruppi etnici diversi per secoli in una relativa armonia.
Dopo la fine della 1°. Guerra Mondiale, nel 1918, che provocò lo sfaldamento dell’Impero Austro-Ungarico degli Asburgo e dopo il Trattato di Versailles del 1919, lo statuto giuridico dei Donauschwaben (svevi o tedeschi del Danubio) divenne incerto.
Quando il regime nazionalsocialista prese il potere in Germania nel 1933, i cittadini di etnia tedesca ammontavano a più di 12 milioni che vivevano nell’Europa Centrale e Orientale al di fuori delle frontiere del Reich tedesco.
Molte di queste persone furono incluse nel Reich in seguito all’annessione dell’Austria e della regione dei Sudati nel 1938, della Cecoslovacchia nel 1939 e di parti della Polonia alla fine del 1939.
La “questione tedesca”, cioè la lotta per l’autodeterminazione dei cittadini di origini tedesche al di fuori delle frontiere del Reich tedesco, fu un fattore importante nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Anche dopo il 1939 più di 3 milioni di oriundi tedeschi restarono al di fuori delle frontiere allargate del Reich, più precisamente in Romania, Yugoslavia, Ungheria e Unione Sovietica.
Il primo stato yugoslavo, 1919-1941, aveva una popolazione di circa 14 milioni di persone di diverse culture e religioni.
Alla vigilia del 2° conflitto mondiale la Yugoslavia includeva circa 6 milioni di serbi, circa 3 milioni di croati, oltre un milione di sloveni, circa 2 milioni di bosniaci musulmani, 1 milione di oriundi albanesi del Kosovo, circa mezzo milione di oriundi tedeschi ed un altro mezzo milione di oriundi ungheresi.
Dopo il crollo della Yugoslavia, nell’Aprile 1941, seguito da una rapida avanzata militare tedesca, circa 200.000 cittadini di origine tedesca divennero automaticamente cittadini dello Stato Indipendente di Croazia nuovamente ristabilito, un paese le cui autorità militari e civili rimasero alleate del Terzo Reich fino all’ultima settimana di guerra in Europa.
I restanti oriundi tedeschi, circa 300.000 nella regione della Voivodina, passarono sotto la giurisdizione ungherese che incorporò questa regione durante la guerra (dopo il 1945 questa regione fu riannessa alla parte serba della Yugoslavia).
Il destino degli oriundi tedeschi si fece sinistro durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto dopo la fondazione della seconda Yugoslavia, uno stato comunista multietnico diretto dal Maresciallo Josip Broz Tito.
Verso la fine dell’Ottobre 1944 le forze partigiane di Tito, aiutate dall’avanzata sovietica e generosamente assistite dalle forniture aeree degli Alleati occidentali, presero il controllo di Belgrado, la capitale serba che divenne, in seguito, la capitale della nuova Yugoslavia.
Uno dei primi atti giuridici del nuovo regime comunista fu il decreto del 21 Novembre 1944 circa “la decisione riguardante il trasferimento dei beni del nemico nella proprietà dello Stato”.
Esso dichiarava “nemici del popolo” i cittadini di origine tedesca e li privò dei diritti civili.
Il decreto ordinava anche la confisca da parte del governo di tutti i beni, senza compensazione, dei tedeschi di Yugoslavia. Una legge supplementare, promulgata a Belgrado il 6 Febbraio 1945, tolse la cittadinanza yugoslava ai tedeschi che vivevano nel paese.
Alla fine del 1944, mentre le forze comuniste avevano già preso il controllo dell’est dei Balcani, cioè la Bulgaria, la Serbia e la Macedonia, la Stato della Croazia, alleato dei tedeschi, resisteva ancora bene. Tuttavia all’inizio del mese di Aprile del 1945, le truppe tedesche, assieme ai militari e civili croati, cominciarono la ritirata verso l’Austria meridionale, e più precisamente verso la Carinzia. Durante gli ultimi due mesi di guerra, la maggioranza dei civili di origine tedesca in Yugoslavia si unirono a questo grande esodo. La paura dei rifugiati davanti alla tortura e alla morte era più che fondata, visto l’orribile trattamento inflitto dalle forze sovietiche ai civili tedeschi nella Prussia orientale e in altre parti dell’Europa dell’est. Alla fine della guerra, nel Maggio del 1945, le autorità tedesche avevano evacuato circa 220.000 cittadini tedeschi di Yugoslavia verso la germania e l’Austria. Molti però restarono nella loro patria ancestrale devastata dalla guerra.
Dopo la fine dei combattimenti in Europa, l’8 Maggio 1945, più di 200.000 cittadini di etnia tedesca che erano rimasti nelle retrovie yugoslave, divennero a tutti gli effetti i prigionieri del nuovo regime comunista.
Ben 63.635 civili yugoslavi di origine tedesca (donne, uomini e bambini) perirono sotto il regime comunista fra il 1945 ed il 1950, cioè circa l’8% della popolazione civile tedesca. La maggior parte morirono di spossatezza nei lavori forzati e nella “pulizia etnica”, oppure di malattia e di malnutrizione.
Il “miracolo economico “ così tanto vantato dalla Yugoslavia titina e più tardi dai “sessantottini” occidentali, fu il risultato diretto del lavoro di migliaia di lavoratori forzati tedeschi che, alla fine degli anni 40, contribuirono a ricostruire il paese.
I beni dei tedeschi di Yugoslavia, confiscati dopo la Seconda Guerra Mondiale, erano rappresentati da 97.490 piccole attività commerciali, fabbriche, magazzini, fattorie e altre attività. I beni immobiliari e terre coltivate confiscati ammontavano a 637.939 ettari e divennero proprietà dello stato yugoslavo. Secondo un calcolo del 1982, il valore dei beni confiscati ai tedeschi di yugoslavia raggiungeva i 15 miliardi di marchi, cioè circa 7 miliardi di dollari americani. Tenendo conto dell’inflazione, ciò corrisponderebbe oggi a 18 miliardi di dollari americani.
Dal 1948 al 1985 più di 87.000 tedeschi che risiedevano ancora in Yugoslavia, si sono trasferiti in germania dove sono diventati automaticamente cittadini tedeschi.
Tutto ciò costituì la “soluzione finale della questione tedesca“ nella Yugoslavia titina.
Di un milione e mezzo di cittadini di etnia tedesca che vivevano nel bacino del Danubio nel periodo 1939-1941, circa 93.000 servirono durante la Seconda Guerra Mondiale nelle forze armate dell’Ungheria, della Croazia e della Romania, paesi dell’Asse alleati della Germania, oppure nelle forze armate regolari tedesche. I cittadini di etnia tedesca dell’Ungheria, della Croazia e della Romania che servirono nelle formazioni militari di questi paesi, restarono rispettivamente cittadini di questi paesi.
Inoltre numerosi di questi tedeschi della regione danubiana servirono nella divisione Waffen-SS “Prinz Eugen“, che raggruppava circa 10.000 uomini (questa formazione fu battezzata in onore del Principe Eugenio di Savoia che aveva ottenuto grandi vittorie contro le forze turche alla fine del XVII secolo e all’inizio del XVIII secolo nei Balcani). Arruolarsi nella divisione “Prinz Eugen“ conferiva automaticamente la cittadinanza tedesca al momento del reclutamento.
Dei 26.000 tedeschi danubiani che persero la vita servendo nelle diverse formazioni militari, la metà perì dopo la fine della guerra nei campi yugoslavi. Le perdite della divisione “Prinz Eugen“ furono particolarmente alte, essendosi il grosso della divisione arreso dopo l’8 Maggio 1945.
Circa 1.700 di questi prigionieri furono uccisi nel paese di Brezice nei pressi della frontiera croato-slovena e la restante metà morì nei lavori forzati delle miniere di zinco in Yugoslavia nei pressi della città di Bor, in Serbia.
A parte la “pulizia etnica“ dei civili e soldati tedeschi del Danubio, circa 70.000 tedeschi che avevano servito nelle forze regolari della Wehrmacht, perirono durante la prigionia in Yugoslavia. La maggior parte di essi morì durante le rappresaglie o come lavoratori forzati nelle miniere, costruendo strade, nei cantieri navali ecc.
Erano principalmente dei soldati del “Gruppo d’Armata E“ che si erano arresi alle autorità militari britanniche nel sud dell’Austria al momento dell’armistizio dell’8 Maggio 1945.
Le autorità britanniche consegnarono circa 150.000 di questi prigionieri ai partigiani yugoslavi comunisti col pretesto di un ulteriore rimpatrio in Germania.
La maggior parte di questi soldati regolari della Wehrmacht perirono nella Yugoslavia post-bellica in tre fasi.
Durante la prima fase più di 7.000 soldati tedeschi catturati morirono nelle cosiddette “marce di espiazione“ organizzate dai comunisti, facendo 1.300 kilometri dalla frontiera sud dell’Austria fino alla frontiera nord della Grecia.
Durante la seconda fase, alla fine dell’estate 1945, numerosi soldati tedeschi in prigionia furono sommariamente giustiziati o gettati vivi nelle grandi voragini carsiche [le foibe, nda] lungo la costa della Dalmazia, in Croazia.
Nella terza fase, dal 1945 al 1955, altri 50.000 perirono, come lavoratori forzati, di malnutrizione, stanchezza.
Il numero totale delle perdite tedesche durante la prigionia in Yugoslavia dopo la fine della guerra, includendo i civili e i soldati “tedeschi del Danubio“, nonché i tedeschi del Reich, può essere stimato sui 120.000, assassinati, morti per fame, uccisi sul lavoro o scomparsi.
Qual è l’importanza di queste cifre?
Che lezione si può imparare da queste perdite tedesche del dopoguerra?
E’ importante sottolineare che la triste sorte dei civili tedeschi dei Balcani altro non è che una piccola parte della topografia della morte comunista.
In totale, fra i 7 e i 10 milioni di tedeschi, personale militare o civile, morirono durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa ed in Unione Sovietica. La metà di essi perì negli ultimi mesi della guerra o dopo la resa incondizionata della Germania l’8 Maggio 1945. Le perdite tedesche, sia civili che militari, furono sensibilmente più elevate durante la “pace “ che durante la “guerra“.
Durante i mesi che precedettero e seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale, i cittadini di etnia tedesca furono uccisi, torturati ed espropriati in tutta l’Europa orientale e centrale, in particolare nella Slesia, nella Prussica orientale, in Pomerania e nei Sudati. In tutto dai 12 ai 15 milioni di tedeschi fuggirono o furono cacciati dalle loro abitazioni durante quello che probabilmente rimane la più grande “pulizia etnica“ della storia.
Di questo numero, più di due milioni di civili furono uccisi o persero la vita.
I genocidi comunisti nella Yugoslavia del dopoguerra vengono raramente affrontati dai media dei nuovi paesi nati dalle rovine della Yugoslavia comunista nel 1991, anche se oggi, in questi nuovi paesi, c’è una maggiore libertà di espressione e di ricerca storica che nei paesi dell’Europa occidentale.
Le elites post-comuniste di Croazia, Serbia e Bosnia, ampiamente composte da ex comunisti, sembrano condividere un interesse comune a rimuovere il loro passato criminale per quanto concerne il trattamento dei civili tedeschi.
Lo sfaldamento della Yugoslavia nel 1990-1991, gli avvenimenti che lo provocarono, nonché la guerra e le atrocità che ne seguirono, non possono essere compresi se non nel quadro delle grandi mattanze effettuate dai comunisti yugoslavi dal 1945 al 1950.
Come abbiamo già notato, la “ pulizia etnica “ non è niente di nuovo. Anche se si considera l’ex dirigente serbo Slobodan Milosevic e gli imputati croati attualmente sotto giudizio presso il Tribunale Internazionale dei Crimini di Guerra dell’Aja in qualità di criminali, i loro crimini di guerra, siano essi reali o presunti, restano minuscoli in confronto a quelli del fondatore della Yugoslavia comunista, Josip Broz Tito.
Tito effettuò la “ pulizia etnica “ e i massacri di massa su scala molto più ampia, contro i croati, i tedeschi e i serbi, spesso con l’avallo dei governi britannico e americano. Il suo regno in Yugoslavia (1945-1980) che coincise con la “guerra fredda“ fu in genere sostenuto dalle potenze occidentali che consideravano il suo regime come un fatture di stabilità in questa parte dell’Europa.
D’altra parte, la tragedia dei tedeschi dei Balcani impartisce una lezione sulla sorte degli stati multietnici e multiculturali. Due volte, durante il XX secolo, la Yugoslavia multiculturale, si trasformò in un carnaio inutile, scatenando una spirale di odio fra i gruppi etnici che la componevano.
Si può concludere, di conseguenza, che per delle nazioni e delle culture diverse, senza parlare di razze diverse, è meglio vivere a parte, separati da muri, piuttosto che vivere in una falsa convivialità che nasconde delle animosità e lascia dei risentimenti che durano nel tempo.
Poche persone potevano prevedere i selvaggi massacri interetnici che imperversarono nei Balcani dopo lo sfaldamento della Yugoslavia nel 1991 e questo fra popoli di origine antropologica relativamente simili. Non si può che porsi domande inquietanti circa il futuro degli Stati Uniti e della Francia dove tensioni fra popolazioni autoctone e masse allogene del Terzo Mondo lasciano presagire un disastro con conseguenze molto più sanguinose.
La Yugoslavia multiculturale fu, innanzitutto, la creazione dei dirigenti politici francesi, britannici e americani che firmarono il Trattato di Versailles nel 1919 e dei dirigenti politici britannici, sovietici e americani che si incontrarono a Yalta e a Potsdam nel 1945. Le figure politiche che crearono la Yugoslavia, così come fu concepita, non comprendevano affatto bene la percezione che le diverse popolazioni locali avevano di se stesse e di quelle vicine.
Nonostante le morti, le sofferenze e gli espropri subiti dai tedeschi dei Balcani durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale siano conosciute dalle autorità tedesche e dagli storici indipendenti, esse continuano ad essere ignorate dai grandi media degli Stati Uniti e dell’Europa.
Perché?
Si può dedurre che, se queste perdite tedesche fossero più ampiamente discusse e meglio conosciute, esse stimolerebbero probabilmente una visione alternativa della Seconda Guerra Mondiale e, infatti, di tutta la storia del XX secolo.
Una migliore conoscenza delle perdite civili durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale potrebbe incoraggiare una discussione sulla dinamica delle società multiculturali di oggi.
Ora, un procedimento simile, a sua volta rischierebbe di colpire fortemente le idee e i miti dominanti che plasmano l’Europa dal 1945.
Un dibattito aperto sulle cause e le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale offuscherebbe anche la reputazione di numerosi specialisti e opinionisti negli USA ed in Europa.
E’ probabile che una migliore conoscenza dei crimini commessi dagli Alleati durante e dopo il conflitto bellico, in nome della “ democrazia “ potrebbe cambiare i miti fondatori di numerosi Stati contemporanei.
TOMISLAV SUNIC (Scrittore)
tomislav.sunic@zg.htnet.hr
Traduzione a cura di: Gian Franco SPOTTI
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