martedì 11 dicembre 2007

Swap, derivati e i voli ( poco ) pindarici di Floris

“Abbiamo rimodulato un debito con l'operazione Swap esattamente due anni fa - rivela - quando ci siamo trovati di fronte a un'eccedenza di liquidità di 40 milioni di euro. Era appena terminata un'altra operazione collegata, quella dei buoni obbligazionari Boc. E su quelli avevamo bisogno di un calcolo sugli interessi particolare. Per questo abbiamo accettato un'offerta delle banche per uno Swap andato a buon fine di dieci milioni di euro. Non ci abbiamo rimesso, anzi abbiamo avuto una resa, perchè abbiamo preteso la massima garanzia dagli istituti di credito. Non volevamo ipotecare il futuro contabile del Comune.” Con queste parole Ugo Cappellacci – Assessore al Bilancio del Comune di Cagliari – commenta l’ultima genialata del Comune: un investimento, quantificato in dieci milioni di euro, in swap. Questo termine, fino ad ora poco conosciuto, sta diventando l’incubo di molti enti locali, imprese e aziende, istituti, associazioni, organizzazioni, semplici famiglie e via dicendo, e c’è quindi da immaginare che diventerà – purtroppo per noi – sempre più popolare.
Gli swap sono dei “derivati finanziari” ( vale a dire come quelli che stanno sbattendo fuori di casa decine di migliaia di americani ); i derivati, a loro volta, si chiamano così perché il loro valore dipende da variabili esterne ( azioni di ditte o società quotate in Borsa, indici, valute nazionali o estere, tassi di interesse etc. ). Gli swap più conosciuti, cioè quelli che le banche italiane hanno rifilato a centinaia di migliaia di clienti, sono strumenti finanziari ad alto rischio e si basano – almeno sulla carta – su delle specie di “assicurazioni” che un Ente, una associazione, una impresa può prendere al fine di garantire un investimento bancario contro una eccessiva crescita dei tassi di interesse relativi ad un debito. In teoria…
Supponiamo che una impresa sottoscriva uno swap su un debito che la stessa impresa contrae con la banca con tasso variabile ( ovvero legato alle fluttazioni del mercato azionario e borsitico ), ipotizziamo, del 7%. Con lo swap – teoricamente – l’impresa è garantita contro il rialzo dei tassi di interesse, in quanto la banca si impegna a pagare il debito se il tasso di interesse sale, mentre si impegna a non corrispondere alcuna agevolazione nel caso che l’interesse scenda sotto il 7%: in termini più semplici l’impresa cerca di “stazionare” quel tasso di interesse, per definizione varibile, all’interno di un massimo e di un minimo che è comunque lo speculatore ( vale a dire l’impresa stessa che firma il contratto ) che deve decidere, cercando di prevedere quindi se le future fluttazioni del mercato saranno positive o negative. In altre parole la banca dice al contraente: “Tu contrai con me un debito a tasso variabile del 7%. Se il tasso scende tu non guadagnerai nulla, ma se il tasso sale oltre il 7% quello che avresti dovuto mettere tu lo metto io. In questo modo se il tasso scende ( poniamo, al 5%, due punti percentuale sotto quello standard ) tu non hai diritto a nessuna agevolazione, e continuerai a pagare sempre il tasso che abbiamo concordato, o giù di lì; se però il tasso sale pago io. Quindi se il tasso scende tu non guadagni, ma se sale neanche perdi.”Messa così, l’operazione finanziaria non fa una piega e si traduce in un vantaggio per il cliente. Ma questo tipo di operazione – denominata “plain vanilla”, che risulta essere la più efficiente e la meno costosa, e conseguentemente quella che le aziende sarebbero sicuramente state molto più tranquille nel firmare – è solo una goccia in un mare rispetto alla stragrande maggioranza dei contratti stipulati dai contraenti bancari, che hanno firmato contratti in cui erano contenuti dei “plain vanilla” modificati. Cioè, oltre all’opzione di stabilizzazione, diciamo così, dei tassi di interesse che abbiamo accennato sopra, i “plain vanilla” sono stati caricati di altre clausole contrattuali e finanziarie che hanno snaturato di fatto il prodotto iniziale di riferimento; queste clausole contenevano “scommesse” sulla fluttazione che i tassi di interesse avrebbero avuto in futuro: questo tipo di operazione è definita speculativa: ovvero, in termini semplici, si azzarda sul valore che potrà avere, in un più o meno immediato futuro, un determinato tasso di interesse, un indice, un valore azionario etc. Va da se che una operazione di questo tipo viene a perdere il suo valore di assicurazione per diventare, né più né meno, una normale operazione di azzardo borsistico che molte aziende non hanno mai richiesto né voluto, ma che hanno firmato a causa di contratti lacunosi e spesso imbroglioni. Torneremo tra poco, molto sinteticamente, sulla dinamica contrattuale.
Dicevamo dei “plain vanilla”: se le banche avessero venduto solo questo tipo di contratto, certamente più economico e più conveniente per le imprese, i guadagni delle banche stesse sarebbero stati molto minori. Molto meglio instradare la clientela in una sorta di casinò economico, facendogli firmare, oltre alla stabilizzazione ( o, chiamiamola così, fluttazione controllata ) della quale abbiamo appena scritto, anche tutta una somma di operazione finanziarie, dirette sui mercati interni e non, assai pericolose. In parole semplici il consumatore, firmando i derivati, scommette sull’aumento o sulla diminuzione di quel tasso di interesse, o indice, o titolo, o valore che potrà essere tra un mese, sei mesi, un anno. Se azzecca allora vince, se non azzecca perde: le vincite, neanche a dirlo, non coprono mai neanche un decimo delle spese. E chi è che ha degli uffici appositi per instradare il cliente sulla strada giusta? Le banche, neanche a dirlo ( . Nella banca in cui mi reco talvolta per effettuare delle operazioni è ben visibile l’ufficio, con scritta l’indicazione “Borsa”, in cui i clienti possono chiedere informazioni sui mercati azionari e sulla Borsa ). E se il cliente perde sempre, e quindi la banca ci guadagna sempre, allora il sospetto diventa quasi una certezza; ancor più se mai nessuno vince, e tutti perdono.
Ho accennato, poco prima, ai contratti oggetto di queste operazioni. Uno dei punti principali, infatti, è proprio questo. Questi contratti – siano essi mutui sub-prime, come in America, o “plain vanilla”, o derivati finanziari che dir si voglia – spesso sono lacunosi, difficili da decifrare e da capire: richiedono conoscenze profonde del mercato azionario e borsistico, dei movimenti bancari, del mercato dei titoli, delle dinamiche economiche e contrattuali. Tutte cose che una normale persona, solitamente, non può certo avere. Lo stesso ex-ministro dell’Economia Siniscalco ha candidamente ammesso di avere molta difficoltà a leggere e capire questo tipo di contratti, e si può ben capire come se una cosa sia complicata per un ex ministro, docente di economia politica all’Università di Torino, specializzato all’Università di Cambridge, alla Johns Hopkins University di Baltimora (USA) e all'Università Cattolica di Lovanio-CORE, editorialista de Il Sole 24 Ore e chi più ne ha più ne metta, ancor più possa essere difficile per una persona normale. Le banche, in questo senso, si sono prevenute facendo firmare un modulo di autocertificazione nel quale il contraente dichiarava di essere un esperto delle dinamiche economiche e borsistiche proprie degli stessi investimenti che si stavano andando a sottoscrivere: come ha ben dimostrato l’inchiesta andata in onda domenica 14 ottobre di Report ( il cui sito, insieme a diversi altri che si trovano indicati a fine articolo, è stato una fonte di informazioni al quale mi sono rivolto per cercare di appianare almeno un minimo la mia ignoranza in questo ambito, e cercare di riuscire a capire, pur nelle linee generali, come funzionasse questo tipo di mercato ), questa dichiarazione è stata firmata da suore, panettieri, idraulici etc., la stragrande maggioranza certamente estranea più di Siniscalco alle dinamiche economiche.
Ora: qualcuno ha pagato? Si. La Consob ( l’ente che si occupa di vigilare sulla trasparenza del mercato bancario, e non solo ) ha multato la Unicredit ( mezzo milione di euro, un trentesimo del suo fatturato, se non mi sbaglio ), l’ad della stessa Profumo ( ventimila euro all’anno, che per Profumo sono una bazzecola dato che guadagna quasi venti milioni di euro annuali ) e 19.200 € all’ex direttore generale Pietro Modiano. Ci sembrano, rispetto agli stipendi extralusso di questi signori, multe che insultano la comune intelligenza e il comune sentire, che esigerebbe sicuramente ben più per esponenti di banche – la Unicredit, ma certamente non solo lei – che hanno rovinato intere famiglie, patrimoni, istituzioni, comuni, enti pubblici e via dicendo.
In conclusione, con contratti criptati, difficili, enigmatici, e attuando una campagna di disinformazione sulle vere ripercussioni di questi investimenti, tante persone, enti, istituzioni, associazioni imprese sono stati deliberatamente spinti sulla strada della bancarotta: aziende chiuse, imprese fallite, i beni delle associazioni pignorati, famiglie sul lastrico.
Torno quindi a concentrarmi sulla vicenda con la quale ho iniziato questo mio intervento, cioè che anche il Comune di Cagliari si è imbarcato in questa avventura, dimostrando quindi di non aver imparato niente dai Comuni, specialmente del centro e del sud Italia, che sono in bancarotta. Anche al sud dovevamo avere un precursore dei furbetti del quartierino, e purtroppo l’abbiamo avuto con il Floris di centrodestra.
Ora, una domanda nasce spontanea: e se per caso il Comune perdesse, come è accaduto al 99,9% dei Comuni che hanno sottoscritto questo tipo di contratti, chi paga? Anche la risposta è spontanea: noi sardi, e cagliaritani, con l’ICI ( capisco bene ora perché anche Floris ha drizzato le orecchie quando ha sentito che il governo voleva intervenire con tagli sull’ICI ), la tassa sui rifiuti e gli altri balzelli che il Comune può decidere di introdurre a suo piacimento.
Quei dieci milioni di euro, che il signor Floris si è permesso di investire, appartengono anche a me e a tutti i cagliaritani. Quando si utilizza del denaro pubblico lo si dovrebbe fare con oculatezza, e non giocarlo al casinò ( anzi, sarebbe stato meglio, dato che almeno lì si ha qualche possibilità di vincere ). Ma si sa, che interessa a Floris e ai suoi assessori, quando il denaro è nostro e non loro? Concorde su questa linea anche Eliseo Secci, assessore regionale al Bilancio: “Un ente come il nostro non può permettersi di rischiare il suo capitale in questa maniera. A me gli Swap sembrano un pasticcio. Bisogna sapere sempre in anticipo il risultato finale degli investimenti: lo Swap può andare bene per un privato [ neanche tanto, N.d.A. ], che può permettersi di ipotecare il suo capitale dieci o vent'anni dopo. Ma quando si amministrano le risorse dei cittadini, non si possono fare voli pindarici.”

Fonti:
1) Il Giornale di Sardegna; vari numeri, in particolare quello del 18 ottobre 2007.
2) L’Unione Sarda
3) Wikipedia.it
4) http://www.report.rai.it/R2_popup_articolofoglia/0,7246,243%255E1074824,00.html

POST SCRIPTUM: Il presente articolo ha funzione prevalentemente personale: ho cioè cercato di capire cosa avesse fatto e sottoscritto il Comune di Cagliari firmando swap per dieci milioni di euro, e ho cercato di dimostrare come la cosa si traduca, di fatto, in un giocare con i soldi dei cittadini cagliaritani e sardi. Non ho avuto quindi l’ambizione di capire tutte le dinamiche sottese a queste operazioni, ma solo quella di provare a dire – cercando di capire –, con parole semplici, come funzionasse uno swap. Mi scuso anticipatamente se qualcuno, leggendo questo scritto, possa trovare lacune o imprecisioni, che comunque sarò ben contento se saranno fatte notare.

Andrea Chessa – Coordinatore MOVIMENTO FASCISMO E LIBERTA’ Sardegna
348/4418898
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