In poche ore è successo ciò che nessuno si aspettava
potesse mai accadere sul piano internazionale e, specialmente, sul fronte
siriano. Partiamo dal principio, e cerchiamo di fare un po’ di ordine.
Qualche giorno fa i mass media internazionali battono
la grancassa: il regime del despota Assad ha utilizzato armi chimiche nella
provincia siriana di Idlib, provocando la morte di una sessantina di persone,
la maggior parte delle quali donne e bambini. Il coro è unanime: Assad se ne
deve andare, è un tiranno che va rovesciato, etc. Secondo la ricostruzione
russa, invece, l’attacco aereo che ha causato vittime civili sarebbe stato
lanciato si dal regime di Assad, ma contro un deposito dei ribelli, dove
nessuno sapeva che fossero contenute armi chimiche che si sarebbero poi
propagate nell’aria, causando morti e feriti. Del resto, questa seconda
versione parrebbe più plausibile: la Siria già nel 2014, con la stessa
supervisione degli Stati Uniti e della comunità internazionale, con la
collaborazione delle Nazioni Unite aveva già smantellato il proprio arsenale
nucleare. Il regime, pertanto, non poteva disporre di armi chimiche. Semmai il
problema, a questo punto, sarebbe un altro: i terroristi siriani anti-Assad
dove si sarebbero procurati le armi? Non dai depositi governativi che, come
detto, sono stati smantellati già qualche anno fa.
La sensazione è quella di un deja vù. Già a Ghouta, nel
2013, il Presidente siriano era stato accusato di aver adoperato armi chimiche
contro la popolazione civile. Anche in quel caso la risonanza mediatica
internazionale fu enorme. L’uso del gas contro vittime inermi venne però smentito
qualche mese dopo dal giornalista Seymour Hersh, Premio Pulitzer. Del resto che
la notizia fosse solo una scusa per provocare un intervento armato degli Stati
Uniti in Siria era già stato dimostrato dai fatti: persino Barack Obama, uno
che non si faceva certo scrupoli a bombardare nazioni sovrane infischiandosene
completamente del diritto internazionale e che ha sempre permesso l’ascesa e l’ingorssamento
delle file dei miliziani dello Stato islamico in funzione anti Assad, in quel
caso non aveva ordinato un intervento militare.
Qui la Storia sembra ripetersi ma, purtroppo, il finale
è ben diverso. Non si sa ancora cosa abbia spinto Trump ad agire. Del resto
egli stesso, solo due giorni fa, dichiarò che rovesciare Assad non era una
priorità dell’amministrazione americana, facendo illudere i più ottimisti, noi
compresi, che ci fosse un ulteriore margine di avvicinamento e di comunanza di
intenti con la Russia.
Forse sarà stato la grancassa mediatica, amplificata da
quell’Osservatorio sui Diritti Umani in Siria che altro non è che un unico individuo
che emette comunicati ben comodo nella sua sede londinese; forse sarà stata una
necessità di prestigio interno: non sarebbe la prima volta (Pearl Harbour docet)
che un Presidente americano senta il bisogno di riscuotere consensi interni mediante
una guerra internazionale; forse sarà stata l’opera di normalizzazione che l’apparato
neocon stava conducendo, lentamente, ai fianchi del neo Presidente americano.
Sta di fatto che questa “aggressione contro uno Stato
sovrano”, come l’ha definita Putin, segna un cambio nettissimo dell’amministrazione
americana che, solo fino a qualche giorno fa, sembrava aver preso tutt’altra
direzione. Come è stato possibile? Cosa c’entra la Turchia e Israele, che esultano come due scolaretti al loro ultimo giorno di scuola? Quest’ultimo,
per bocca del suo Ministro dell’Interno, al giornale israeliano Yediot Ahoronot
aveva dichiarato che lo Stato sionista aveva le prove che l’attacco chimico che
aveva provocato una sessantina di morti civili fosse stato sferrato dall’aviazione
di Assad e che fossero state utilizzate armi chimiche, bandite dalla comunità
internazionale. La fonte, però, avrebbe dovuto insospettire chiunque. Anche qui
si respirava aria di deja vù, e sembrava di rivedere una brutta copia di quel
Colin Powell che tenne un discorso alla sede delle Nazioni Unite, sventolando
una fiaschetta in cui asseriva fosse contenuto l’antrace che Saddam Hussein
aveva utilizzato in Iraq. Ora sappiamo che era una gigantesca bufala con la
quale gli Stati Uniti presero in giro il mondo intero, e nessuno di quella
amministrazione è mai stato richiamato da un Tribunale Internazionale di guerra
a rispondere dei crimini americani e dell’invasione dell’Iraq.
Donald Trump è stato normalizzato. Di più: ha virato
decisamente verso le posizioni obamiane (per quanto nemmeno Obama aveva mai
avuto il coraggio di condurre une guerra aperta contro la Siria di Assad,
preferendo lavorarla ai fianchi con i ribelli jihadisti siriani e provocando
danni dalle conseguenze che stiamo vedendo tutt’oggi in Medio Oriente). Di più:
è diventato “clintoniano”. Il suo messaggio alle nazioni civili unite nella
lotta contro il terrorismo ha quasi sapori messianici. Se qualcuno, come il
sottoscritto, si era illuso che qualcosa, almeno qualcosa, potesse cambiare
nella politica estera americana, da stanotte in poi è stato ampiamente
smentito. Il Presidente che avrebbe potuto porre un freno all’imperialismo e
all’arroganza americana in campo internazionale lascia lo spazio al solito
Presidente guerrafondaio, degno compare dei Bush e degli Obama che si sono
avvicendati negli ultimi anni nello Studio Ovale.
Oggi è una giornata triste per tutti gli uomini liberi.
Però, forse, non è ancora arrivato il momento di gettare la spugna. Quando l’ultimo
Stato sovrano sarà invaso, saccheggiato, distrutto e umiliato, forse, allora,
avremo perso. Quel giorno, speriamo, non è ancora arrivato. Ora più che mai:
forza Siria! Forza Assad!
Nessun commento:
Posta un commento