No, non siamo quelli che dei morti ne parlano sempre
bene. Perché, nella nostra schiettezza, pensiamo che se sei stato un essere
ripugnante da vivo sarai tale anche da morto.
Alla morte di Dario Fo non siamo stati tra coloro che
hanno cercato qualche like su
Facebook ricordando il “maestro”, né tra coloro che hanno guardato la diretta
Rai – con tanto di “Bella ciao” e pugni chiusi – pagata da noi tutti, anche
coloro che il pugno chiuso non lo fanno e che “Bella ciao” non l’hanno mai
cantata.
Partiamo dall’inizio. La vigliaccheria e l’infamia
caratterizzano i comportamenti di questo personaggio fin dalla sua giovinezza.
Fascista, dapprima fu volontario nella Repubblica Sociale Italiana di
Mussolini, poi volontario nel Battaglione Azzurro di Tradate, impegnato spesso
in azioni di rastrellamento antipartigiane. Nell’intervista a La Repubblica del
1978 sentenziò: «[Entrai nella RSI] per ragioni molto
più pratiche: cercare di imboscarmi, di portare a casa la pelle (...). Io e
tanti miei amici chiamati alla leva, per evitare il fronte le pensavamo tutte.
E per evitare di essere deportato in Germania la scappatoia fu quella di
arruolarmi nell'artiglieria contraerea di Varese. Una contraerea mancante dei
pezzi fondamentali, i cannoni. Una situazione ideale per noi, che contavamo di
tornarcene tranquillamente a casa. In permesso perenne. Invece era una
trappola. Appena arruolati ci caricarono sui treni merci, ci fecero indossare
divise tedesche e ci affidarono all'esercito del Reich, per farci addestrare
sul serio. In realtà ci usarono come bassa manovalanza (...) A un certo punto
capimmo che ci avrebbero trasportati in Germania a sostituire gli artiglieri
tedeschi massacrati dalle bombe. E allora altra fuga. L'unico scampo era
arruolarsi nella scuola dei paracadutisti di Tradate, a due passi da casa mia.
(...) Finito l'addestramento, fuga finale. Tornai nelle mie valli, cercai di
unirmi ai partigiani, ma non era rimasto nessuno". In pratica una
ripugnante via di mezzo tra il traditore e l’imboscato, ma pronto, ovviamente,
ad entrare a far parte della guerriglia partigiana a guerriglia oramai finita,
da buon vigliacco.
È una storiella, questa,
che fu lo stesso Fo a cercare di far dimenticare, citando in tribunale perfino
il giornale Il Nord, che lo aveva
definito un rastrellature di partigiani. Ovviamente perse: per il giudice fu “legittima
non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”,
pertanto “moralmente responsabile” delle azioni compiute dal suo Battaglione.
Basterebbe già questo per
rendere questo personaggio un individuo moralmente abbietto, vile e
nauseabondo, sia ad una parte politica – che ammette di aver tradito e
boicottato spudoratamente – sia all’altra. Ma poiché la sinistra è sempre ben
ghiotta di personaggi abbietti e nauseabondi – sennò non sarebbe la sinistra
che tutti ben conosciamo – Fo si è trovato a sguazzare in quell’ambiente marcio
come un porco in mezzo al fango.
Ma è solo l’inizio di un
lungo curriculum vitae condito dalla militanza politica, feroce e spietata
contro gli avversari politici, sempre a sostegno dei teppisti e dei criminali
di sinistra, come vedremo, sempre carica di disprezzo e di odio per la
controparte.
Potremmo parlare, ad esempio, della campagna di odio –
portava nei teatri di tutta Italia con la benevola complicità di istituzioni,
giornalisti e magistratura – che Dario
Fo, e la sua (in)degna moglie Franca Rame, fecero contro il Commissario Calabresi,
che indagava sulla strage di piazza Fontana. Si scoprirà in seguito che gli
autori dell’attentato che lo uccise erano quattro: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino,
giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, tutti esponenti di Lotta Continua, movimento
politico di estrema sinistra che godeva di ben più di qualche semplice simpatia
nei collettivi universitari, nelle scuole, nelle redazioni dei giornali e,
soprattutto, nei partiti politici di sinistra e di estrema sinistra.
Potremmo ricordare quel suo “Tanto è morto solo un
lurido Fascista”, rivolto a Sergio Ramelli, che ben dimostra, casomai ce ne
fosse ancora bisogno, la sua bassezza prima di tutto umana. Chi era Sergio? È presto
detto. Sergio sarebbe potuto essere chiunque di noi, negli anni Settanta. Dopo
due anni di quello che oggi sarebbe definito con un termine assai leggero come “bullismo”,
condito di processi sommari nell’androne del liceo, scritte intimidatorie sotto
casa, pestaggi, insulti, sputi, Sergio ebbe il solo torto di scrivere un tema
contro le Brigate Rosse, che oggi siamo abituati (almeno coloro tra noi che
non hanno ancora portato il proprio cervello all’ammasso) a vedere come il
gruppo terroristico che erano, ma che all’epoca godevano di una speciale
considerazione negli ambienti della scuola, dell’università, del giornalismo e
anche delle istituzioni. Una sorta di gruppo di eroi, forse poco ortodossi, ma pronti
a lottare contro i nemici del popolo e della democrazia (quella solo ed
esclusivamente di chi la pensava come loro, ovviamente) per la vittoria del
socialismo reale. Ebbene, fu un semplice tema scolastico la condanna a morte di
Sergio. Che questo ragazzino di diciotto anni non si fosse piegato alle
minacce, alle intimidazioni, ai pestaggi sommari in dieci contro uno, ai
processi farsa fatti davanti ai propri compagni di classe, e si fosse
addirittura permesso di scrivere un tema in cui condannava le Brigate Rosse e
le coperture più o meno esplicite di cui queste godevano, apparve a coloro di Avanguardia
Operaia, altro gruppo di terroristi di sinistra, un crimine intollerabile. Così
alcuni esponenti della “Brigata coniglio”, soprannominati così dai loro stessi
compagni per la leggendaria vigliaccheria che li caratterizzava nell’affrontare
i “fasci” sempre e comunque in schiacciante superiorità numerica, aspettano
Sergio sotto casa, lo braccano, lo inseguono, e lo massacrano di botte
utilizzando la famigerata Hazet 36, chiave inglese trasformatasi in moderna
spada con la quale i moderni eroi comunisti mettono a tacere gli avversari
politici.
Ebbene, Sergio non è ancora clinicamente morto (morirà
diversi giorni dopo) che, alla notizia dell’aggressione, dai banchi della
sinistra del Comune di Milano, saputa la notizia, si alzano cori di festa e un
lunghissimo applauso di gioia al sapere che un ragazzino di destra, pericoloso
e temibile fascista, è stato ritrovato massacrato, con la testa fracassata a
colpi di chiave inglese e la materia cerebrale che cola sul marciapiede. Basterebbe
questo, solo e semplicemente questo, per dimostrare l’odio disumano di cui una
buona parte della sinistra si è nutrita, e continua a nutrirsi. A suggellare
questo carnevale dell’infamia arriva poi lui, il Fo, che sentenzia la fine di
Sergio così: “Tanto è morto solo un Fascista”. Questo fu il Premio Nobel… ne
seguì una violenta campagna di stampa (ci volle tutto l’impegno della dirigenza
del MSI per impedire che, da parte dei camerati, cominciasse una stagione di
vendetta sommaria).
Ma non basta. Dario Fo, e sua moglie Franca Rame, non
hanno ancora toccato il punto più basso delle loro misere esistenze di esseri
umani, prima ancora che di guitti d’avanspettacolo ammanicati con il potere.
L’abiezione più lurida, la loro più vergognosa
degradazione della loro dimensione umana, la dimostrano pienamente con il rogo
di Primavalle. È così che viene ricordato l’attentato di terroristi di sinistra in cui perdono la vita
Virgilio e Stefano, rispettivamente di otto e ventidue anni, figli del dirigente missino Mario Mattei.
Gli autori del
rogo sono ben noti: sono esponenti di Potere Operaio, altro gruppo eversivo e
terrorista dell’estrema sinistra. Li conoscono i giornalisti, li conoscono i
poliziotti, li conosce la famiglia Mattei, che prima di allora aveva ricevuto
intimidazioni e minacce, li conoscono i parlamentari di sinistra. Giorgio Almirante
è costretto a correre a perdifiato nella notte per placare gli animi, per
impedire che i suoi camerati, costantemente vittime di intimidazioni, minacce,
aggressioni in pieno stile gappista, dopo aver visto un bambino di otto anni e
un ragazzo di ventidue morire bruciati vivi, si facciano giustizia da se, nella
maniera più sommaria e violenta possibile. Ci vuole uno stomaco di ferro, una
capacità di autocontrollo straordinaria, per non armarsi di tutto punto e andare, con
le lacrime agli occhi, a farla sacrosantamente pagare a chi ha il coraggio di
compiere, nei confronti della propria comunità, atti così infamanti. Invece i ragazzi del MSI stringono i denti, serrano i pugni, schiumano di rabbia, ma dimostrano una compattezza incredibile.
Gli autori della strage li conoscono tutti. Talmente sono
noti, i nomi degli assassini, che solo due giorni dopo la Magistratura spicca
tre mandati di arresto per gli assassini: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio
Grillo. Solo il primo, Lollo, viene catturato: gli altri due riescono a
scappare in Svizzera.
Poiché gli assassini di innocenti alla sinistra sono
sempre piaciuti, immediatamente parte una campagna di stampa palesemente
faziosa, mirante a far scagionare Lollo e gli altri terroristi, facendo
apparire la tragedia di Primavalle come un banale regolamenti di conti tra
gruppi interni dell’estrema destra romana.
In prima fila, a difendere l’indifendibile, troviamo Il
Messaggero, uno dei più importanti quotidiani romani, di proprietà della
famiglia Perrone, la cui figlia, Diana Perrone, era una accesa militante di Potere
Operaio. Sarà Achille Lollo, nel 2003, una volta rientrato in Italia grazie
alla prescrizione ed alla latitanza, a includerla tra coloro che pianificarono
ed attuarono la strage.
Quattro giorni dopo Il Manifesto titola di una “montatura
fallita”.
Il 17 aprile, al liceo Castelnuovo di Roma, un volantino
congiunto di studenti e professori sentenzia che “l’antifascismo non è mai
stato terrorismo (sic!). Solo una mente fascista poteva pensare di appiccare il
fuoco ad un appartamento di un lotto proletario, in una casa in cui dormono dei
bambini”.
L’anno dopo è la volta del libretto “Primavalle:
incendio a porte chiuse”, dove si paventa la possibilità di uno scontro interno
alle diverse componenti del MSI e di una pericolosa montatura architettata da
Fascisti e magistratura per fregare i compagni. A scrivere la prefazione a
questo opuscolo è addirittura un giudice, Marrone, tra i fondatori di
Magistratura Democratica, corrente politica dei magistrati, ovviamente, di
estrema sinistra.
E poi non può mancare l’ebreo Pincherle, in arte
Alberto Moravia, il senatore comunista Umberto Terracini, l’estremista di
sinistra Riccardo Lombardi, e tanti altri, noti e meno noti.
Tutti colpevoli, tutti corresponsabili nel creare quel
clima di “Tanto è morto solo un Fascista” tanto caro a Dario Fo: se muoiono i
Fascisti è cosa buona e giusta; se con i fascisti muoiono anche i loro
fratellini di otto anni (e dar del Fascista ad un bambino di otto anni è
evidentemente troppo, anche per i compagni) allora non sono stati gli
antifascisti ma gli stessi fascisti. È la tesi, tra l’altro, delle vignette del
figlio di Dario e Franca, Jacopo, che eredita le caratteristiche più brutte e
più abbiette del padre e della madre insieme.
Ma il papà e la mamma, Dario e Franca, riescono a fare
di peggio. Peggio dei Perrone, peggio di Pincherle, peggio di Marrone: creano
una vera e propria rete di sostegno per i terroristi, con il fine di creare un
clima mediatico e politico a loro più favorevole, influenzando giornalisti e
opinionisti come politici, oppure fornendo in totale anonimato denaro e
contatti ai terroristi latitanti o in carcere, come Achille Lollo, che sconta
due anni per poi scappare dopo la sentenza di primo grado che lo assolse (in
seguito sarà condannato a 30 anni che non sconterà a causa della sua latitanza
all’estero prima, e a causa della nel frattempo avvenuta prescrizione poi).
La rete di sostegno ai terroristi creata da Dario Fo e
Franca Rame si chiama Soccorso Rosso Militante: assistenza legale, logistica,
economica agli estremisti di sinistra e ai terroristi colpiti dalla “repressione
borghese”, quella dello Stato e degli sbirri, due categorie per le quali Dario
Fo e Franca Rame nutrono un vero e proprio odio “di classe”. Ecco la lettera
che Franca Rame scrive ad Achille Lollo mentre sconta i primi e gli unici due
anni di carcere preventivo per l’omicidio dei fratelli Mattei, lettera che
viene scritta, è bene ricordarlo, in un momento in cui sia la Rame, sia Fo, sia
la magistratura, sia la Polizia, sia il mondo della carta stampata, hanno
capito una verità inequivocabile: ad uccidere i fratelli Mattei, con lucida
premeditazione, sono stati Lollo, Clavo e Grillo:
"Caro
Achille, ti ho spedito un telegramma non appena saputo del tuo arresto, ma oggi
ho saputo che i telegrammi in partenza da Milano hanno anche 15 giorni di
ritardo. Arriverà che sarai già uscito. Ieri e oggi i giornali parlano di te
dando ottime notizie. Caduta l'imputazione di strage. Bene! Sono contenta.
Quello in cui spero tanto è che al giudice Sica capiti quello che è capitato
anche a Provenzale. Così, dopo aver provato sulla propria pelle quello che vuol
dire la prossima volta staranno attenti (a loro o ad un loro figlio). Comunque
credo che tu sia un pò contento. Anche il fatto ridicolo degli esplosivi
seguirà l'altro, anche perchè di esplosivi non ne avevi. Io non ti conosco, ma
come molti sono stata in grande angoscia per te. Ho provato dolore ed
umiliazione nel vedere gente che mente, senza rispetto nemmeno dei propri
morti. Dolore di saperti protagonista di quel dramma scritto da un pessimo
autore. Ti ho inserito nel Soccorso rosso militante. Riceverai denaro dai
compagni, e lettere, così ti sentirai meno solo. Comunicami immediatamente la
tua scarcerazione, che avverrà prestissimo. Se puoi scrivi. Un fortissimo
abbraccio."
Eccola, Franca Rame, la
paladina dei diritti umani, l’eroina del politicamente corretto, ancora oggi
incensata e venerata dalla stampa mainstream: sostiene i terroristi, minaccia
velatamente i giudici e i loro figli, mente, sapendo di mentire, sui veri
responsabili (quelli del MSI mentono “senza avere rispetto dei propri morti”,
no?). Eccolo, il tanto celebrato Premio Nobel.
Ora, che pensavamo di
esserci liberati di tanta meschinità, di tanta bassezza, di tanto odio, siamo
costretti a sorbirci il figlio, quello stesso che i morti di Primavalle li
irrideva con le sue vignette disgustose, decantare il padre come un martire,
come uno scomodo, addirittura come un “ribelle”.
Ma quale martire? Ma quale
personaggio scomodo? Ma quale “ribelle”? Dario Fo la ribellione non sapeva
nemmeno dove stesse di casa.
Abbiamo a che fare
solamente con un personaggio disgustoso, voltagabbana e infame prima, pronto a
saltare sul carro del vincitore quando le sorti della guerra hanno visto la sconfitta
dell’Asse, sempre dalla parte di quelli che contano, prima fiancheggiatore di
terroristi, poi sostenitore del PD, poi sostenitore dei grillini, guitto d’avanspettacolo
osannato e condannato da compagni e soci.
Non ci mancherà. Per
nulla.
Nessun commento:
Posta un commento