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Voglio raccontarvi, tramite le parole di Luca Telese, la storia
di un ragazzo come tanti, come me appassionato di calcio e di politica. E’ la
storia di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte ucciso a colpi di chiave
inglese nel 1975 da esponenti di Avanguardia Operaia .
“Sono i primi giorni di gennaio, è il 1975.
All’istituto tecnico Molinari, in V° J il professore di lettere assegna ai ragazzi, tra gli altri, un tema di attualità.
Sergio Ramelli, che frequenta da due mesi la sede del Fronte della gioventù, non ha dubbi: parla delle Brigate rosse. Scrive che il primo delitto dei brigatisti è stato compiuto contro due missini, scrive che le Br sono un pericolo per la democrazia, scrive che Mazzola e Giralucci, purtroppo, sono ricordati come delle vittime solo dai loro compagni di partito, che i brigatisti non sono un pugno di romantici rivoluzionari, ma un’organizzazione manovrata.
All’istituto tecnico Molinari, in V° J il professore di lettere assegna ai ragazzi, tra gli altri, un tema di attualità.
Sergio Ramelli, che frequenta da due mesi la sede del Fronte della gioventù, non ha dubbi: parla delle Brigate rosse. Scrive che il primo delitto dei brigatisti è stato compiuto contro due missini, scrive che le Br sono un pericolo per la democrazia, scrive che Mazzola e Giralucci, purtroppo, sono ricordati come delle vittime solo dai loro compagni di partito, che i brigatisti non sono un pugno di romantici rivoluzionari, ma un’organizzazione manovrata.
Ha le idee chiare, non c’è dubbio. Forse, osserverà il
professore, è rimasto impressionato da un editoriale di Giorgio Pisanò apparso
sul Candido e ne riecheggia le tesi, chissà: il testo originale di questo tema,
ovviamente, oggi non esiste più. Ma il suo contenuto se lo ricordano bene tutti,
i professori e i compagni di classe di Sergio. Perché succede che il ragazzo
incaricato di raccogliere i temi venga bloccato in corridoio da alcuni compagni
di scuola, che fanno parte del collettivo politico più forte dell’istituto,
quello di Avanguardia operaia. E che poi i ragazzi del collettivo si mettano a
spulciare gli elaborati uno per uno, per capire cosa hanno scritto i loro
compagni su un argomento così delicato. Nessuno saprà mai che voto avrebbe preso
per quel compito Sergio, il professore non lo correggerà mai.
Poche ore dopo, infatti, nella bacheca dell’atrio due fogli
protocollo fanno bella mostra di sé, affissi con le puntine. Sopra c’è una
scritta rossa: ECCO IL TEMA DI UN FASCISTA. Il testo è costellato di
sottolineature. Per quanto nessuno ancora possa nemmeno immaginarlo, quel tema,
e la sua «correzione», sono l’inizio di una drammatica catena che, anello dopo
anello, si chiuderà con la morte di Sergio.
C’è qualcosa, nella figura di Sergio come è stata ricostruita
negli atti e nei ricordi di chi lo ha conosciuto, che colpisce ancora oggi. Non
si tratta di cedere all’eterna tentazione di costruire agiografie retroattive,
non è la solita attitudine alla santificazione del martire. Ma è come se Sergio,
in qualche modo, fosse riuscito a restare refrattario al furore ideologico del
suo tempo. È un fan sfegatato solo quando si tratta di Adriano Celentano (una
«vera mania», assicura la madre). È un grandissimo appassionato di sport,
soprattutto di calcio, gioca a pallone a livello semiprofessionistico. È tifoso
dell’Inter ma raramente va allo stadio, non è interessato al tifo. Dice la
signora Anita: In tutte queste cose, nella musica, nello sport, come nella
politica non era un fanatico. Si interessava, gli piacevano, si entusiasmava, ci
metteva il cuore, ma non l’ho mai visto urlare o irritarsi.
Così, ripercorrendo i suoi ultimi giorni, si trova anche
qualcosa di stoico, in lui, nel modo in cui si avvicina alla fine. In quella
lunga cronaca di una morte annunciata che sarà il suo omicidio, malgrado il
moltiplicarsi dei segnali e delle minacce, incredibilmente Sergio non si
lamenterà mai né chiederà soccorso ai camerati, che sicuramente, se avessero
saputo, avrebbero fatto qualcosa per proteggerlo.
Fino all’ultimo terrà all’oscuro anche la sua famiglia, negherà
l’innegabile, mentirà per nascondere la progressione delle aggressioni di cui
viene fatto oggetto. Risulta dai verbali degli interrogatori che persino nei
giorni in cui a scuola lo insultano e lo prendono a calci, lui continua a non
raccontare niente ai genitori. Quando proprio non può, e la madre lo riempie di
domande, scuote la testa e le fa: «Non preoccuparti mamma, non è nulla».
La giornata più drammatica, nel corso della lunga persecuzione
che prepara il delitto, è quella del 3 febbraio 1975. Dopo molte discussioni,
papà e mamma Ramelli hanno deciso di imporre al figlio di abbandonare il
Molinari. A malincuore Sergio è costretto ad accettare, e quella mattina entra a
scuola accompagnato dal padre per sbrigare le necessarie pratiche burocratiche.
Purtroppo li stanno aspettando: nel corridoio della scuola padre e figlio sono
aggrediti, picchiati e costretti a passare fra due file di studenti per un
violento rituale di sottomissione.
Sembra la scena di un film di Kubrick, sembra un’arancia
meccanica in salsa meneghina, e ancora una volta bisogna lasciare la parola a
Grigo e Salvini per sapere come si conclude questa terrificante passeggiata:
Il ragazzo era stato colpito ed era svenuto, mentre lo stesso
preside e i professori che avevano scortato il Ramelli e il padre verso l’uscita
erano stati malmenati.
Ancora più sconcertante la testimonianza del professor
Melitton, secondo cui la preside aggredì il padre e gli disse:
«Ma non vede che lei e suo figlio siete un motivo di turbamento
per la scuola?».
Marzo 1975. Roberto Grassi, ex studente del Molinari, ed
esponente di spicco di spicco del servizio d’ordine di Avanguardia operaia,
durante una riunione di cellula si rivolge a Marco Costa, universitario, numero
due del servizio d’ordine di Medicina a Città Studi. Grassi è uno dei pochi tra
i dirigenti del gruppo che conosca personalmente Ramelli. Ed è lui che
preannuncia a Costa una decisione da tempo nell’aria: dovrà essere la sua
squadra (proprio perché non è in alcun modo collegabile al giovane missino) ad
aggredire il ragazzo. Sarà un battesimo d’azione, la prima sprangatura del
gruppo. Sarà il primo delitto politico degli anni Settanta commesso per
interposta persona, il primo delitto, a sinistra, realizzato «su
commissione».
La comunicazione «ufficiale», invece, in un’organizzazione
leninisticamente centralizzata e gerarchica, arriverà da un altro dirigente,
Giovanni Di Domenico detto «Gioele». Infatti, Di Domenico avvicina Walter
Cavallari e gli dice:
«Dovete andare a menare un fascio». Cavallari non se la
sente.
Pochi giorni prima gli è stato chiesto di sprangare uno
studente di Agraria, ma non è andata come pensava. Lo aggredisce, ma subito dopo
ha paura, scappa: «Doveva essere un militante di acciaio temprato, e invece no,
mi ero trovato davanti solo un uomo». Viene esautorato. Per uno che ha un dubbio
ce ne sono dieci che non ne hanno.
Il suo posto lo prende Costa. L’azione si deve fare lo stesso.
Dopo trent’anni Anita Ramelli abita ancora nella stessa casa di via Amedeo, con
la finestra affacciata sul luogo dove avvenne l’aggressione a Sergio. Per
ostinazione, per abitudine, per senso della memoria, non se ne è voluta
andare.
Per anni su quel pezzo di muro si sono combattute grandi battaglie simboliche: prima i manifesti con le minacce, poi la guerra dei fiori e delle scritte, e addirittura una battaglia per i sacchi di immondizia che un portiere del condominio di fronte si ostinava a depositare proprio lì davanti, malgrado i cassonetti a pochi passi più in giù. Un giorno, gli amici di Sergio gli spiegarono che o sceglieva un altro posto per depositarli, o si sarebbe ritrovato i rifiuti in guardiola: cosa che puntualmente accadde, dopo l’ennesima sfida.
Per anni su quel pezzo di muro si sono combattute grandi battaglie simboliche: prima i manifesti con le minacce, poi la guerra dei fiori e delle scritte, e addirittura una battaglia per i sacchi di immondizia che un portiere del condominio di fronte si ostinava a depositare proprio lì davanti, malgrado i cassonetti a pochi passi più in giù. Un giorno, gli amici di Sergio gli spiegarono che o sceglieva un altro posto per depositarli, o si sarebbe ritrovato i rifiuti in guardiola: cosa che puntualmente accadde, dopo l’ennesima sfida.
Non è facile dimenticare, nemmeno per un quartiere, soprattutto
per chi non capisce che si possa continuare a combattere una guerra anche su
qualche metro di marciapiede e di intonaco. Oggi, mani ignote, ma per chi sa
individuabili, hanno dipinto su quella parete un grande murale, con una scritta
e una croce celtica: SERGIO VIVE. È il modo che la comunità di cui Sergio faceva
parte ha scelto per non dimenticare.
Ancora oggi, ogni tanto, mamma Ramelli si affaccia alla
finestra di casa sua. Guarda il muro, e la scritta. E non dice nulla.
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