Che
cosa sarebbe accaduto se nell’era dell’Unione Sovietica – con le purghe di
Stalin, i piani quinquennali che sterminavano intere popolazioni, i gulag in
cui venivano deportati gli avversari politici – fosse esistito internet? È presto
detto: Facebook sarebbe nato almeno cinquant’anni prima.
Quello
che il sottoscritto, e come me tanti altri camerati colpevoli solo di pensare
fuori dal coro, abbiamo passato può essere paragonato solo con un “1984” in
salsa moderna, in cui il Grande Fratello del capolavoro di George Orwell viene ben
rappresentato da Facebook.
Ve
lo racconto.
Partiamo
da un presupposto: nonostante gli strali del Nostro Segretario Nazionale, Carlo
Gariglio, uso abbastanza regolarmente Facebook (lo usa perfino lui, però,
quindi può incazzarsi, ma fino ad un certo punto). Ultimamente lo utilizzavo per
non più di 2/3 interventi al giorno, quelli che nel gergo comune anglofilo si
chiamano “post”. Termine che potrebbe essere ben sostituito da parole italiane
come “intervento”, “tema”, “pensiero”, ma noi siamo un popolo di coglioni e
quindi diciamo che “ho postato una cosa su Facebook”. Utilizzare regolarmente
Facebook significa, per me, avere una bacheca in cui compaiono tante notizie,
tutte di diverso tenore, anche provenienti da diversi indirizzi politici,
comunque tutti interessanti, e poter
cazzeggiare su qualche gruppo dedicato ai nostalgici della commedia all’italiana
(chi lo sente adesso Gariglio?): non più di qualche frasetta al giorno, qualche
gruppo musicale di mio gradimento, qualche messaggio privato scambiato con
qualcuno. Né più né meno, insomma, di come viene utilizzato da miliardi di
persone in tutto il mondo. Ho smesso di cercare di svegliare gli italiani per
cambiare il mondo: ho scoperto che vedere quanto sono deficienti è forse anche
più divertente, e più in là di Sanremo e del McDonald non vanno.
Ebbene:
quando lo uso poco Facebook si incazza e mi censura. Non so perché, ma funziona
così: meno scrivo e più ciò che scrivo è sotto la costante attenzione del genio
dal naso adunco e dei suoi accoliti.
Bastava
una frase di Benito Mussolini, un articolo del mio blog, un commento troppo
sarcastico per un utente, che subito partiva la censura: “Il tuo post non
rispetta gli standard della Community”, e blocco per 30 giorni. Mai uno, due,
tre giorni: sempre e solo trenta. Pena massima, senza appello.
Prima,
però, il social network del genio dal naso adunco aveva almeno la creanza di informarti
su cosa veniva censurato: addirittura – troppa grazia! – potevi richiedere pure
un secondo controllo, ché magari vi siete sbagliati! Addirittura, non è
leggenda, una volta un mio commento sarcastico nei confronti di un elettore di
sinistra è stato dapprima censurato, poi ri-approvato. Lo dico senza vergogna:
mi sono quasi commosso da un simile trattamento.
Ultimamente,
invece, nei miei confronti Facebook attuava una vera e propria campagna di pressione
psicologica h24, un po’ come quelle del regime sovietico contro i borghesi:
magari eri un pezzentone che non riusciva ad arrivare alla fine del mese (anche
perché, grazie ai geniali piani quinquennali del regime, non era proprio semplicissimo)
però bastava che chiunque, anche l’ultimo dei capibastone, ti appellasse “borghese”
– appartenente, cioè, a quella classe padrona che aveva impoverito e sfruttato
l’Unione Sovietica, secondo la “loro” propaganda, che la tua esistenza era
segnata.
Allo
stesso modo a me, di tanto in tanto, negli ultimi tempi arrivavano messaggi di
censura ai miei interventi, ma senza dirmi di cosa si trattasse: non un
collegamento da premere, non una spiegazione, non la citazione della frase
incriminata. Nulla di nulla. Quindi utilizzavo il sito creato dal genio dal
naso adunco con questi pensieri: gli darà fastidio questa riflessione che
percula Di Maio? Gli piacerà questo video degli Slipknot? E questo video di
cani che abbaiano adirati contro i gatti di casa che sonnacchiano sulle loro cucce
come sarà interpretato? Penseranno ad una qualche velata allusione a Giuseppe
Conte quando va in Europa?
Poi,
di colpo, la censura colpisce più forte. Fin qui niente di male. Però ti prende
pure per il culo. Questo, effettivamente, è un po’ fastidioso.
Cosa
è accaduto? È presto detto. Qualche giorno fa, mentre mi reco a lavoro, entro
sul sito del genio dal naso adunco e mi viene comunicato che qualcosa che ho
fatto, scritto, detto, pensato, non è piaciuta al genio in questione o a
qualcuno dei suoi solerti collaboratori. Non mi viene detto di cosa si tratti,
calco su “Avanti” o qualcosa di simile, comunicando al sito che si, ho capito
di aver fatto incazzare qualcuno degli sgherri di regime in questione, anche se
non c’è modo di capire il perché. Arrivo ad una finestrella: “Confirm your
account”. Facebook mi dice che vuole accertarsi che sia davvero io ad
utilizzare Facebook e non Sergio Mattarella sotto mentite spoglie. Vabbè,
facciamolo contento. Per fare questo vuole che carichi sul sito un mio
documento di identità: la patente di guida, la carta di identità, qualcosa che
Facebook conserverà sui suoi sistemi per non meno di 30 giorni e non più di
365. Mi chiedo con quale diritto un sito internet pensi di esibire un documento
per sapere cosa faccio, dove vivo, dove abito: chi gli ha dato tanto potere? Nemmeno
si trattasse di una piattaforma Rousseau gestita da Bonafede! Poi, però, fedele
al motto del “Male non fare, paura non avere” dico a me stesso che se Facebook
vuole avere queste informazioni va bene, gliele darò, fosse anche solo per vedere
dove vuole andare a parare. Tanto, come dice il sito stesso, posso sempre
eliminare i documenti se cambio idea. O no?
Clicco
su “Scatta foto”, preparo la mia carta di identità sul tavolo, faccio la foto,
la invio. Di nuovo la stessa identica schermata: “Confirm your account”. Non
avrà funzionato qualcosa, penso. Eseguo nuovamente la procedura: scatto la
foto, Facebook approva, di nuovo la stessa identica schermata di partenza. Appare
sempre quel “Confirm your account”, come se non avessi compiuto nessuna azione.
Va bene, penso, non vuole la carta di identità, forse vuole la patente. Preparo
la patente sul tavolo, clicco su “Scatta la foto”, di nuovo la stessa identica
schermata. Forse è una procedura che va a buon fine solo se eseguita da un pc e
non da un telefono cellulare, penso. Entro su Facebook, carico il documento,
invio. Niente. Stessa identica schermata delle venti volte precedenti. Sembra che
la mia utenza si sia bloccata qui.
Aspetto.
La procedura è stata eseguita diverse volte, qualcuna di questa sarà
sicuramente andata a buon fine. Gli amici del genio dal naso adunco capiranno
che sono io e sbloccheranno la mia utenza quanto prima. Sono o non sono
democratici, loro? Aspetto due giorni. Nulla. Stessa identica schermata. Ripeto
le procedure. Nulla. Stessa identica schermata. Mi sento come l’insegnante
delle elementari di Paola Taverna: sfiduciato. Poi, per curiosità, calco su
quel collegamento in blu, quello che vedete in foto, precisamente “disattivi
questa opzione”: lì scopro che Facebook ha immagazzinato nei suoi sistemi tutte
le foto che gli ho inviato, all’incirca una quindicina. Quindi tutte le
procedure che ho eseguito sono andate a buon fine, tecnicamente erano giuste, ma
il sito internet del genio dai capelli crespi ha continuato imperterrito a
presentarmi lo stesso identico messaggio, nell’intento chiarissimo di prendermi
per il culo.
La
conferma mi arriva da Carlo, che mi chiede se si mi sia eliminato da Facebook. Gli
spiego la disavventura. Mi dice testualmente: è una presa per il culo, è un
modo carino per bloccarti senza dirti che ti hanno bloccato, tanto che mia
moglie ha sul suo profilo la tua stessa identica schermata – l’oramai famoso “Confirm
your account” – da diverse settimane, senza che nulla sia successo. Non potevamo
sentirci tre giorni prima, ché mi sarei evitato di provare la stessa procedura
più e più volte, vincitore come la Fedeli davanti ai congiuntivi?
Qualcuno
dirà che Facebook è un sito privato e come tale può applicare le regole che
vuole. Vero, ma fino ad un certo punto, vista la rilevanza che il social
network ha sia a livello mediatico che a livello politico (come la causa legale
persa contro CasaPound – arbitrariamente censurata da Facebook – dimostra
ampiamente). Ad ogni modo è significativo che a difendere a spada tratta le
censure arbitrarie e politicamente corrette di Facebook siano coloro che – a parole
– si battono per la democrazia, la libertà di parola ed altri ammennicoli
simili, ma in questo caso chiudono volentieri un occhio solo ed esclusivamente
perché la censura colpisce la parte politica avversa, quella che in settanta
anni di leggi speciali e disposizioni transitorie della Costituzione (ma
transitorie fino a quando? Sono passati – appunto – settant’anni!) non sono
ancora riusciti a mettere a tacere.
Cosa
farò? Probabilmente, non rinuncerò al sottile piacere di creare un po’ di
lavoro per il genio dai capelli crespi: è una questione di principio. Creerò una
nuova utenza di posta elettronica, registrerò un nuovo profilo, ed aggiungerò
tutte le utenze perdute. Di nuovo.
Volete la censura da sgherri di regime quali siete? Guadagnatevela.
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