domenica 30 settembre 2012

La stimo, Direttore, ma non riesco a disperarmi per Lei



In queste ore tiene banco, in tutto il mondo politico e, ancor di più, nei media, il caso del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti.

Di cosa si tratta? E’ presto detto. Nel 2007, quando Alessandro Sallusti non era ancora passato a dirigere Il Giornale ed era invece direttore di Libero, esce un articolo, con pseudonimo "Dreyfus," altamente provocatorio: si denuncia la vicenda di una quindicenne rimasta incinta e costretta, con la complicità di giudici e magistrato, ad abortire, causando l’internamento della ragazzina in una struttura sanitaria. 

Che cosa succede? Succede che il magistrato chiamato in causa nell'articolo si senta diffamato e calunniato da quell’articolo e decide di sporgere denuncia. Sallusti, per legge, è responsabile di ciò che scrivono i giornalisti della sua redazione, e non sapendo chi si celi dietro lo pseudonimo di “Dreyfus”, viene condannato sia in sede civile che in sede penale, costretto ad una pena detentiva di 14 mesi e al pagamento, all’incirca, di 50.000 euro di risarcimento al “povero” magistrato, così duramente toccato nel suo onore. Ora sappiamo, alla conclusione del processo, che i fatti riportati in quell’articolo non erano veri, o non completamente: nessuno costrinse la ragazzina ad abortire, firmò consensualmente, con la presenza della madre. E – piaccia o no – tanto basta per non poter parlare di alcuna costrizione.

Da questa vicenda traiamo varie conclusioni. La prima, innanzitutto, è che è aberrante che in un Paese incivile come il nostro, in cui è difficilissimo andare in galera per reati gravissimi come la corruzione, l’omicidio colposo, il tentato omicidio, lo stupro, l’ingresso illegale in territorio italiano, e via dicendo, si vada in galera per un reato di opinione. Perché, si badi bene, di nient’altro si tratta. 

Parliamo anche del coraggio di Sallusti, che si è rifiutato di chiedere la grazia a Napolitano (giudicandolo, come capo della Magistratura, colpevole dello strapotere che i giudici hanno acquisito in tutti questi anni – e con buona ragione!), di farsi rieducare (come se fosse un comunissimo stupratore o pedofilo) e di accettare pene diverse che non siano il carcere; coraggio che fa da contraltare alla codardia, alla vigliaccheria e all’infamia dell’autore dell’articolo, quel Renato Farina già conosciuto per essere stato radiato dall’Ordine dei Giornalisti italiani in quanto spia e lacchè degli americani, il quale esce allo scoperto, con lacrime da coccodrillo, solo quando ormai niente si può fare, cioè dopo la pronuncia della Cassazione. E pensa pure di prenderci per i fondelli, il “buon” Betulla: ci dice che, fino a qualche giorno fa, non sapeva niente di questo processo. Ma sorvoliamo: l’uomo ha ampiamente dimostrato la sua pochezza umana, ancor prima che professionale, e non vale la pena dilungarsi oltre.

Parliamo, ancora, dello strano paradosso che vige in Italia, per il quale è difficilissimo andare in galera se ammazzi qualcuno, lo metti sotto con la macchina, violenti una bambina, ma se osi criticare l’operato di un magistrato un bell’annetto di carcere non te lo leva nessuno. Io ho letto l’articolo di Renato Farina, alias Betulla, e lo potete leggere anche voi a questo collegamento: http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=DHQW1. Sappiamo che il contenuto di quell’articolo non corrispondeva a realtà. E va bene.  I toni che vengono utilizzati non sono amichevolissimi. E va bene. Ma non ci sembra un articolo così scandaloso, una volta che il quotidiano paga – e ha pagato! – le spese civili. Giuseppe Cocilovo, questo magistrato così sensibile nell’onore e nel portafoglio (non quereli anche me, signor magistrato! Si dice così, tanto per rendere l’idea!), non si è limitato alla sola causa civile, come avrebbe dovuto fare se, come ha espressamente dichiarato, avesse solo voluto ristabilire la verità. Ha voluto intentare anche un processo penale, non pago, evidentemente, della sola causa civile. E un processo penale, si sa, aumenta la “verità”, lenisce le bruttissime ferite causate dalla diffamazione e, cosa che non guasta mai, gonfia il portafoglio.

Si renda merito ad Alessandro Sallusti di essersi comportato con coraggio. In un Paese in cui, come egli stesso ha dichiarato, “mancano non tanto gli euro, quanto le palle”, ha rinunciato alla poltrona di direttore de Il Giornale (e al relativo stipendio, che non conosciamo con esattezza, ma non dovrebbe essere poi così male), a pene alternative al carcere, a farsi rieducare, a chiedere la grazia a Napolitano, a dire, in fase dibattimentale, il nome di Renato Farina, azione, questa, che sarebbe valsa quantomeno ad alleggerirgli la pena.

Detto questo, però, non riesco a schierarmi dalla parte del direttore (o ex direttore). Il perché è presto detto. Sallusti, sia quando era direttore di Libero sia ora, che è, o è stato fino a pochissimo tempo fa, direttore de Il Giornale, ha ospitato, nel tempo, tutti gli interventi più o meno farneticanti che ci siamo dovuti bere, per anni, sul revisionismo olocaustico. Ricordate tutti i vari articoli in cui a gran voce si chiedeva, e si chiede, la galera per coloro che negano l’olocausto o ne ridimensionano la portata? Molti sono stati ospitati da Sallusti e da quell’esercito di intellettualoidi che fa capo ai Ferrara, ai Pacifici e alle Nirenstein, che sui vari Il Foglio, Il Giornale, Libero, Il Corriere della Sera e via dicendo hanno invocato, e invocano tuttora, la galera per i revisionisti. Anche arrestare qualcuno, sia esso uno storico, uno studioso, uno scrittore o un semplice cittadino, perché non esalta determinati avvenimenti storici, ma si dimostra solo palesemente scettico sulla loro reale portata e veridicità, anche questo è nient’altro che un reato di opinione. Perché una cosa è affermare “Adolf Hitler e il Nazismo hanno fatto benissimo ad uccidere sei milioni di ebrei”, e nessuno dotato di un minimo di raziocinio e di intelligenza si sognerebbe mai non solo di affermare, ma nemmeno di pensare un orrore del genere. Anche perché si incorrerebbe automaticamente in apologia di reato e istigazione allo sterminio di massa, che sono reati, fortunatamente e giustamente, che sono ampiamente previsti dal nostro Codice di Procedura Penale. Un’altra cosa è affermare “Io credo che quell’avvenimento storico, l’olocausto di sei milioni di ebrei, non sia realmente avvenuto”. Per tutta una serie di motivi, che possono anche essere uno più idiota dell’altro, ma che nessuno deve poter pensare di utilizzare come prove per una incarcerazione. Una cosa è esaltare un determinato avvenimento storico, un’altra è negare che sia realmente avvenuto. E, con buona pace di Ferrara, Pacifici e Nirenstein, c’è una bella differenza.

Nessuno ha mai protestato per questo che è, allo stato attuale, l’unico reato di opinione per il quale, nell’Europa che si proclama democratica e che in nome di questa presunta superiorità morale manda i suoi figli a morire nelle guerre di Washington e Tel Aviv, si va in carcere. Nemmeno Sallusti, a quanto ci risulta.
Studiosi e intellettuali come Horst Mahler, Robert Faurisson, Fred Leuchter, David Irving, Alex Moller, Siegfred Verbeke, Pedro Varela, Ernst Zundel, Vincent Reynouard, Gerd Honsik sono, o sono stati, in galera non per aver diffamato qualcuno, per averlo ucciso, derubato o picchiato, ma solo e semplicemente per aver messo in dubbio o ridimensionato la vulgata olocaustica, che gli innominabili poteri massonici e mondialisti tengono in piedi con l’aiuto di leggi repressive in vigore in tutti i paesi europei, con il plauso di Sallusti e dei suoi amichetti sionisti alla Fiamma NIrenstein, alla Giuliano Ferrara, alla Riccardo Pacifici.

Vede, caro Direttore, che basta poco per finire dall’altra parte della barricata? Vede, direttore, che è troppo facile tacere sull’unico reato di opinione che in Europa ti costa il carcere, il revisionismo olocaustico? Vede, direttore, che quando tocca ai revisionisti nessuno dice niente, nessuno si strappa i capelli per questi criminali indifendibili, ma nessuno garantisce che ci si fermerà solo ai revisionisti? 

I reati di opinione, in una società veramente libera e democratica, non dovrebbero esistere. Punto. A meno che, lo ripeto, non costituiscano reato, cosa che nessun revisionista serio si guarda dal fare.

Le assicuro che chiunque sappia cosa vuol dire rischiare qualcosa, anche minima, per le proprie idee, non può fare a meno di provare nei suoi confronti una certa ammirazione. E’ solo che io non riesco a disperarmi, direttore, perché lei prova la stessa medicina che ha preteso per tanto tempo che ingollassero gli “altri”, i cattivi.

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