In queste ore tiene banco,
in tutto il mondo politico e, ancor di più, nei media, il caso del direttore de
Il Giornale, Alessandro Sallusti.
Di cosa si tratta? E’
presto detto. Nel 2007, quando Alessandro Sallusti non era ancora passato a
dirigere Il Giornale ed era invece direttore di Libero, esce un articolo, con
pseudonimo "Dreyfus," altamente provocatorio: si denuncia la vicenda di una
quindicenne rimasta incinta e costretta, con la complicità di giudici e
magistrato, ad abortire, causando l’internamento della ragazzina in una
struttura sanitaria.
Che cosa succede? Succede che
il magistrato chiamato in causa nell'articolo si senta diffamato e calunniato da quell’articolo e
decide di sporgere denuncia. Sallusti, per legge, è responsabile di ciò
che scrivono i giornalisti della sua redazione, e non sapendo chi si celi
dietro lo pseudonimo di “Dreyfus”, viene condannato sia in sede civile
che in sede penale, costretto ad una pena detentiva di 14 mesi e al pagamento,
all’incirca, di 50.000 euro di risarcimento al “povero” magistrato, così
duramente toccato nel suo onore. Ora sappiamo, alla conclusione del processo,
che i fatti riportati in quell’articolo non erano veri, o non completamente:
nessuno costrinse la ragazzina ad abortire, firmò consensualmente, con la
presenza della madre. E – piaccia o no – tanto basta per non poter parlare di
alcuna costrizione.
Da questa vicenda traiamo
varie conclusioni. La prima, innanzitutto, è che è aberrante che in un Paese
incivile come il nostro, in cui è difficilissimo andare in galera per reati
gravissimi come la corruzione, l’omicidio colposo, il tentato omicidio, lo
stupro, l’ingresso illegale in territorio italiano, e via dicendo, si vada in
galera per un reato di opinione. Perché, si badi bene, di nient’altro si
tratta.
Parliamo anche del
coraggio di Sallusti, che si è rifiutato di chiedere la grazia a Napolitano
(giudicandolo, come capo della Magistratura, colpevole dello strapotere che i
giudici hanno acquisito in tutti questi anni – e con buona ragione!), di farsi
rieducare (come se fosse un comunissimo stupratore o pedofilo) e di accettare
pene diverse che non siano il carcere; coraggio che fa da contraltare alla codardia,
alla vigliaccheria e all’infamia dell’autore dell’articolo, quel Renato Farina
già conosciuto per essere stato radiato dall’Ordine dei Giornalisti italiani in
quanto spia e lacchè degli americani, il quale esce allo scoperto, con lacrime
da coccodrillo, solo quando ormai niente si può fare, cioè dopo la pronuncia
della Cassazione. E pensa pure di prenderci per i fondelli, il “buon” Betulla:
ci dice che, fino a qualche giorno fa, non sapeva niente di questo processo. Ma
sorvoliamo: l’uomo ha ampiamente dimostrato la sua pochezza umana, ancor prima
che professionale, e non vale la pena dilungarsi oltre.
Parliamo, ancora, dello
strano paradosso che vige in Italia, per il quale è difficilissimo andare in
galera se ammazzi qualcuno, lo metti sotto con la macchina, violenti una
bambina, ma se osi criticare l’operato di un magistrato un bell’annetto di
carcere non te lo leva nessuno. Io ho letto l’articolo di Renato Farina, alias
Betulla, e lo potete leggere anche voi a questo collegamento: http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/getPDFarticolo.asp?currentArticle=DHQW1.
Sappiamo che il contenuto di quell’articolo non corrispondeva a realtà. E va
bene. I toni che vengono utilizzati non
sono amichevolissimi. E va bene. Ma non ci sembra un articolo così scandaloso,
una volta che il quotidiano paga – e ha pagato! – le spese civili. Giuseppe
Cocilovo, questo magistrato così sensibile nell’onore e nel portafoglio (non
quereli anche me, signor magistrato! Si dice così, tanto per rendere l’idea!),
non si è limitato alla sola causa civile, come avrebbe dovuto fare se, come ha
espressamente dichiarato, avesse solo voluto ristabilire la verità. Ha voluto
intentare anche un processo penale, non pago, evidentemente, della sola causa
civile. E un processo penale, si sa, aumenta la “verità”, lenisce le
bruttissime ferite causate dalla diffamazione e, cosa che non guasta mai,
gonfia il portafoglio.
Si renda merito ad
Alessandro Sallusti di essersi comportato con coraggio. In un Paese in cui,
come egli stesso ha dichiarato, “mancano non tanto gli euro, quanto le palle”,
ha rinunciato alla poltrona di direttore de Il Giornale (e al relativo
stipendio, che non conosciamo con esattezza, ma non dovrebbe essere poi così
male), a pene alternative al carcere, a farsi rieducare, a chiedere la grazia a
Napolitano, a dire, in fase dibattimentale, il nome di Renato Farina, azione,
questa, che sarebbe valsa quantomeno ad alleggerirgli la pena.
Detto questo, però, non
riesco a schierarmi dalla parte del direttore (o ex direttore). Il perché è
presto detto. Sallusti, sia quando era direttore di Libero sia ora, che è, o è
stato fino a pochissimo tempo fa, direttore de Il Giornale, ha ospitato, nel
tempo, tutti gli interventi più o meno farneticanti che ci siamo dovuti bere,
per anni, sul revisionismo olocaustico. Ricordate tutti i vari articoli in cui
a gran voce si chiedeva, e si chiede, la galera per coloro che negano l’olocausto
o ne ridimensionano la portata? Molti sono stati ospitati da Sallusti e da
quell’esercito di intellettualoidi che fa capo ai Ferrara, ai Pacifici e alle
Nirenstein, che sui vari Il Foglio, Il Giornale, Libero, Il Corriere della Sera
e via dicendo hanno invocato, e invocano tuttora, la galera per i revisionisti.
Anche arrestare qualcuno, sia esso uno storico, uno studioso, uno scrittore o
un semplice cittadino, perché non esalta determinati avvenimenti storici, ma si
dimostra solo palesemente scettico sulla loro reale portata e veridicità, anche
questo è nient’altro che un reato di opinione. Perché una cosa è affermare “Adolf
Hitler e il Nazismo hanno fatto benissimo ad uccidere sei milioni di ebrei”, e
nessuno dotato di un minimo di raziocinio e di intelligenza si sognerebbe mai
non solo di affermare, ma nemmeno di pensare un orrore del genere. Anche perché
si incorrerebbe automaticamente in apologia di reato e istigazione allo
sterminio di massa, che sono reati, fortunatamente e giustamente, che sono
ampiamente previsti dal nostro Codice di Procedura Penale. Un’altra cosa è
affermare “Io credo che quell’avvenimento storico, l’olocausto di sei milioni
di ebrei, non sia realmente avvenuto”. Per tutta una serie di motivi, che
possono anche essere uno più idiota dell’altro, ma che nessuno deve poter
pensare di utilizzare come prove per una incarcerazione. Una cosa è esaltare un
determinato avvenimento storico, un’altra è negare che sia realmente avvenuto.
E, con buona pace di Ferrara, Pacifici e Nirenstein, c’è una bella differenza.
Nessuno ha mai protestato
per questo che è, allo stato attuale, l’unico reato di opinione per il quale,
nell’Europa che si proclama democratica e che in nome di questa presunta
superiorità morale manda i suoi figli a morire nelle guerre di Washington e Tel
Aviv, si va in carcere. Nemmeno Sallusti, a quanto ci risulta.
Studiosi e intellettuali
come Horst Mahler, Robert Faurisson, Fred Leuchter, David Irving, Alex Moller,
Siegfred Verbeke, Pedro Varela, Ernst Zundel, Vincent Reynouard, Gerd Honsik
sono, o sono stati, in galera non per aver diffamato qualcuno, per averlo
ucciso, derubato o picchiato, ma solo e semplicemente per aver messo in dubbio
o ridimensionato la vulgata olocaustica, che gli innominabili poteri massonici
e mondialisti tengono in piedi con l’aiuto di leggi repressive in vigore in
tutti i paesi europei, con il plauso di Sallusti e dei suoi amichetti sionisti
alla Fiamma NIrenstein, alla Giuliano Ferrara, alla Riccardo Pacifici.
Vede, caro Direttore, che
basta poco per finire dall’altra parte della barricata? Vede, direttore, che è
troppo facile tacere sull’unico reato di opinione che in Europa ti costa il
carcere, il revisionismo olocaustico? Vede, direttore, che quando tocca ai
revisionisti nessuno dice niente, nessuno si strappa i capelli per questi criminali indifendibili, ma nessuno garantisce che ci si fermerà solo
ai revisionisti?
I reati di opinione, in
una società veramente libera e democratica, non dovrebbero esistere. Punto. A
meno che, lo ripeto, non costituiscano reato, cosa che nessun revisionista
serio si guarda dal fare.
Le assicuro che chiunque sappia
cosa vuol dire rischiare qualcosa, anche minima, per le proprie idee, non può
fare a meno di provare nei suoi confronti una certa ammirazione. E’ solo che io
non riesco a disperarmi, direttore, perché lei prova la stessa medicina che ha
preteso per tanto tempo che ingollassero gli “altri”, i cattivi.
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