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mercoledì 18 novembre 2020

Contrordine, compagnI! Il MES è una ca*ata

Lo avete notato? A coloro come il sottoscritto, avvezzi a guardare i TG ed a leggere i giornali (pur con la debita distanza, sennò la puzza è troppo forte), la cosa è sembrata evidente: “Contrordine, compagni! Il MES non ci piace più”. La fanfara è suonata dalle prime pagine de La Repubblica, che denunciava il grido di allarme di Davide Sassoli: “L’UE cancelli i debiti per Covid e riformi il MES”; della stessa idea Enrico Letta, seguita a ruota dal vice-ministro degli Esteri, Marina Sereni.

Ci sono tutte le fanfare della grancassa mediatica globalista ed antifascista: La Repubblica, Letta, Sassoli. Si tratta di una retromarcia clamorosa: quella che fino a qualche settimana fa era una scelta “doverosa per le sorti del Paese” (loro lo chiamano “paese”, mica Nazione) – e chi non era d’accordo era un populista salviniano fascioleghista – adesso è diventata qualcosa da rivedere, da riformare, da rimettere «nelle mani della Commissione UE» (parole di Sassoli). Fino a qualche giorno fa sembrava che i soldi dell’Europa sarebbero piovuti dal cielo, che ci sarebbe bastato mettere fuori i secchi dalla finestra per raccogliere vagonate di miliardi, che il futuro dell’Italia sarebbe stato roseo e fiorente grazie all’instancabile lavoro della UE e dei nostri “illuminati” governanti. Invece scopriamo che, nemmeno a dirlo, avevamo ragione noi. Prima cosa: i soldi del MES non sono gratis, né ci riempiranno di soldi perché apprezzano le doti da statista di Giuseppe Conte o i congiuntivi di Di Maio. Aderire al MES significa indebitarsi e regalare le chiavi di casa a commissioni sovranazionali che poi potranno mettere bocca su tutto ciò che verrà fatto dall’Italia. 

Ovviamente siamo sicuri che nessuno chiederà conto al PD ed al Governo di questo cambio repentino di idea, quando solo fino a qualche giorno fa i loro esponenti continuavano a sostenere l'esatto opposto. Tutti i giornali che contano sono in mano loro, i giornalisti sono amici loro, i direttori di redazione idem.

Come si fa a fidarsi di gente che il giorno prima giura e spergiura sulla bontà di una proposta politica ed economica palesemente fallimentare per l’Italia, ed il giorno dopo si rimangia tutto con una facilità disarmante? Soprattutto: come si fa a votare un partito politico così tenacemente anti-italiano?

giovedì 22 marzo 2018

La Corte dei Conti rimprovera l'Italia: altro che 35 euro al giorno!



Lo abbiamo sempre detto e lo ripetiamo: anche solo un euro regalato agli invasori africani per venire a svernare in Italia è uno smacco agli italiani indigenti e in difficoltà. 35 euro al giorno è stato il mantra con il quale abbiamo dovuto fare i conti per anni e anche così, viste le decine e decine di migliaia di stranieri che si sono introdotti nel Nostro Paese, la cosa era abbastanza disturbante, almeno a chi non ha ancora portato il proprio cervello a rottamare in qualche centro sociale, tra alcol e droghe. Ora, però, grazie alla Corte dei Conti – quindi un organismo che dovrebbe essere imparziale e autorevole – veniamo a sapere che, per ogni clandestino irregolarmente presente sul suolo patrio, non sono stati spesi 35 euro, bensì molti di più: quasi 200.

La Corte dei Conti si è pronunciata sull’utilizzo delle risorse finanziarie utilizzate per aiutare i richiedenti asilo: lo Stato Italiano è stato criticato per la scarsa efficienza nella gestione dell’emergenze e per gli indicibili sprechi, in particolare per quanto riguarda i servizi legati alla prima accoglienza (soccorso in mare e alloggiamento – anche temporaneo – dei clandestini), quella che tanto piace alle coop rosse e alle ong che con il nuovo schiavismo fanno affari miliardari. 

Ancora, veniamo a sapere che nel 2016 sarebbero stati spesi – ripetiamo: solo per i servizi di prima accoglienza – 1,7 miliardi. Di questi, Frontex (l’organismo europeo che dovrebbe, in teoria, ma molto in teoria, aiutare l’Italia a fronteggiare l’invasione) avrebbe risarcito solo qualcosa come 9 milioni: una proporzione di 1/188. Questo giusto per mettere a tacere i geni che “l’Italia riceve un sacco di soldi all’anno dall’Europa per accogliere i migranti!” 

In ogni caso è chiaramente un’operazione in perdita (e che perdita!), con un costo medio, tra il 2008 e il 2016, di quasi 200 euro a clandestino: quasi sei volte tanto i famosi 35 euro al giorno. La cosa è ancora più scandalosa se si pensa che, sempre nell’arco di tempo 2008-2016, circa il 10% delle domande di richiesta di asilo sarebbe stata accettata. Traduzione: abbiamo speso miliardi e miliardi di euro, soldi dei contribuenti italiani e che si sarebbero potuti utilizzare in ben altro modo, per stranieri che, nella stragrande maggioranza dei casi, non avevano e non hanno alcun titolo per restare qui. E questo vale solo per il 2016!

Come si dovrebbe definire lo stanziamento di ingenti quantità di risorse logistiche ed economiche per accogliere una stragrande massa di parassiti che non hanno alcun diritto di entrare in Italia, e ciò sottraendo risorse e denaro agli italiani?

Pulizia etnica ed alto tradimento: la forca dovrebbe essere la degna fine di un Governo di incapaci, corrotti e traditori della loro Nazione.

venerdì 2 marzo 2018

Dall'I.N.F.P.S. all'IN.P.S.

Capita spesso di leggere qualche sinistro con il tipico cervelletto che li caratterizza,  negare i meriti Fascisti a proposito di Stato sociale; dicono, i poveretti, che non fu il Fascismo a creare il sistema pensionistico… Peccato che chiunque possa verificare online, anche sui siti dell’odierna INPS e di vari Sindacati, quale sia la realtà; in effetti Nel 1898 la previdenza sociale muove i primi passi con la fondazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, ma si trattava di un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. Gli iscritti nel 1899 ammontavano a 978 in tutta Italia (si pensi che il censimento del 1901 valutava i lavoratori di industria ed agricoltura in 12 milioni!).
Ancora nel 1919, anno in cui la previdenza divenne obbligatoria, gli iscritti alla Cassa Nazionale erano a malapena 660 mila…
Rispetto agli occasionali interventi dei precedenti governi, un attento e coordinato studio condusse alla prima codificazione di una serie di provvedimenti legislativi finalizzati a tutelare nel concreto la posizione dei lavoratori e la loro dignità nelle aziende; dalle leggi per la tutela del lavoro di donne e fanciulli (Regio Decreto n° 653 26/04/1923) e di maternità e infanzia (Regio Decreto n° 2277 10/12/1923), passando per l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi e le esenzioni tributarie per le famiglie numerose, si arrivò all’edificazione dell’INFPS e dell’INFAIL, colossi dello Stato sociale arrivati fino ai nostri giorni, seppure perdendo per strada una “F”.
Citiamo ancora il libretto di lavoro, le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto, il TFR e la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato.
Quindi, come al solito, la “democrazia” giudeo – partigiana non ha saputo fare altro se non eliminare il termine “Fascista” dalle denominazioni, esattamente come è avvenuto per le opere pubbliche del Fascismo, dalle quali sono state cancellate le scritte d’epoca ed i vari adornamenti di Fasci Littori ed aquile.
Oggi però, ed è ufficiale, scopriamo che l’INPS non è più un istituto che garantisce ai lavoratori italiani una pensione, bensì uno schema di Ponzi! Questo, almeno, stando alle dichiarazioni di un boiardo di nome Tito (c’è il futuro in un nome simile!) Boeri, presidente dell’INPS, che ha recentemente dichiarato:
«Abbiamo sempre più bisogno di immigrati che contribuiscano al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale», mentre «il nostro paese ha chiuso molti canali d’ingresso regolare».
Ovvero, in parole più semplici, gli immigrati servirebbero a pagare le nostre pensioni!
Ora, per chi non lo sapesse, ecco cos’è il classico schema Ponzi:
Lo schema Ponzi è un modello economico di vendita truffaldino che promette forti guadagni alle vittime a patto che queste reclutino nuovi “investitori”, a loro volta vittime della truffa.
Lo schema di Ponzi permette a chi comincia la catena e ai primi coinvolti di ottenere alti ritorni economici a breve termine, ma richiede continuamente nuove vittime disposte a pagare le quote. I guadagni derivano infatti esclusivamente dalle quote pagate dai nuovi investitori e non da attività produttive o finanziarie. Il sistema è naturalmente destinato a terminare con perdite per la maggior parte dei partecipanti, perché i soldi “investiti” non danno alcuna vera rendita né interesse, essendo semplicemente incamerati dai primi coinvolti nello schema che li useranno inizialmente per rispettare le promesse. La diffusione della truffa spesso diventa di tale portata da renderla palese, portando alla sua interruzione da parte delle autorità.
 ponzi
Ecco, la differenza sostanziale fra uno schema di Ponzi e l’INPS è riassunta nelle ultime righe appena riportate, ovvero, nessuna autorità perseguirà mai l’INPS per i soldi sottratti ai cittadini con la forza, o con l’inganno, per una previdenza sociale ormai più presunta che reale. Vedrò di spiegarmi meglio; qual è il concetto stesso di previdenza sociale? Diciamo accantonare parte di quello che guadagniamo per poi ritrovarcelo durante i periodi difficili, o la vecchiaia; come funzionano le assicurazioni private, che garantiscono a chi le sottoscrive la cosiddetta previdenza integrativa? Si versa una cifra stabilita, che può essere mensile, o semestrale, ed alla fine del contratto la si ha indietro in un’unica soluzione, o tramite versamenti mensili.
Come vengono usati questi soldi che versiamo? Vengono custoditi ed investiti dalle assicurazioni, che tramite una diversificazione del portafoglio, ottengono dei rendimenti, una parte dei quali ritorna al sottoscrittore, mentre un’altra parte resta alla compagnia assicurativa per pagarsi il “disturbo” di investire e fare fruttare i soldi dei clienti; ovviamente, oltre a questo viene riconosciuta al contraente la rivalutazione del capitale, calcolata in base agli indici ISTAT (altra creatura del Fascismo).
Cosa accade, invece, quando versiamo soldi all’INPS, ovviamente in misura enormemente superiore e non volontariamente?
Dopo 30/35 anni di versamenti, ci sentiamo dire che i soldi non ci sono più e che abbiamo bisogno di più extracomunitari per pagarci le pensioni!
Facciamo un rapido calcolo tutt’altro che preciso, ma che serve almeno a rendere l’idea; un operaio che incassa mille euro al mese di stipendio, costa all’azienda che lo assume un cifra analoga di versamenti INPS… Quindi a nome di ogni operaio, l’azienda versa circa mille euro mensili all’INPS per 35 anni, ovvero qualcosa come 420 mila euro!
Certo, il calcolo, come detto, è molto impreciso, in quanto nel corse dei famosi 35 anni cambiano le retribuzioni, vanno considerate le svalutazioni e magari cambiano anche le mansioni del lavoratore, ma il calcolo di cui sopra serve semplicemente a porre una domanda: che fine hanno fatto i 420 mila euro versati in questa simulazione a nome del lavoratore? E ancora: come mai invece di investire e rivalutare questi soldi, per poi pagare la meritata pensione, l’INPS sostiene che non ci sono fondi e che per non morire di fame dobbiamo sperare nell’arrivo di milioni di extracomunitari regolari, i quali, con i loro contributi finanzieranno le pensioni? Semplice, perché i soldi che ingenui e sventurati versano all’INPS vengono rubati e spesi per tutta una serie di cose che nulla hanno a che fare con la nostra pensione! Da qui la similitudine con lo schema di Ponzi: per pagare i primi “investitori” si usano i soldi di quanti “investono” dopo, fino allo scoppio del sistema ed alla sparizione degli ideatori, con cassa annessa!
Ecco in sintesi la trasformazione da INFPS a INPS! Dalla previdenza sociale voluta dal Fascismo, allo schema di Ponzi voluto dal giudeame “democratico” per arricchire loro stessi e truffare il cittadino!
Intanto, i soldi che versate come tante formichine, vengono spartiti da questi delinquenti, che finanziano così le false pensioni che concedono al Sud come voto di scambio, nonché i loro stipendi e le loro stesse pensioni! Basta dare uno sguardo a certi articoli, per capire dove finiscono i nostri versamenti e perché c’è bisogno di nuovi “adepti” per finanziarsi:
“Roma, 9 marzo 2017 – La metà o quasi dei super burocrati dell’Inps guadagna 239mila 800 euro, appena 200 euro sotto il tetto massimo di legge dei 240mila. Una beffa, rafforzata dall’avere tutti o quasi lo stesso premio di risultato (…) Comunque, mettendo insieme tutte le voci (parte fissa tabellare, retribuzione di posizione fissa e variabile, premio di risultato), scopriamo che nel 2015 risultavano in servizio ben 44 dirigenti di primo livello, con una retribuzione complessiva annua ampiamente sopra i 210 mila euro a testa, con circa venti recordman a quasi 240 mila euro: da Giulio Blandamura a Vincenzo Caridi, da Rosanna Casella ad Antonello Crudo, da Vincenzo Damato ad Antonio De Luca, da Cristina Deidda a Maurizio Manente, da Flavio Marica a Fabrizio Ottavi, da Luca Sabatini a Sergio Saltalamacchia, da Maria Sciarrino a Gabriele Uselli e altri. Ad appena mille euro in meno si trovavano Giovanni Di Monde, Giuliano Quattrone e Gabriella Di Michele, che a febbraio scorso è stata nominata direttore generale dell’Istituto (…) Se dalla dirigenza di prima fascia si passa alla seconda, le retribuzioni restano comunque su livelli elevati. Su oltre 450 dirigenti di questa categoria, tutti (salvo quelli nominati in corso d’anno) si portano a casa stipendi ampiamente oltre i 100mila, con una quota rilevante che oscilla tra i 130 e i 150”.
INPS
Chiarito dove finiscono i soldi che gli ingenui credono di versare per la loro previdenza, rimane ancora da evidenziare un punto che dimostra, oltre ogni dubbio, come l’odierna INPS non abbia più nulla a che fare con la previdenza sociale, essendosi trasformata in un’associazione a delinquere dedita all’estorsione nei confronti dei lavoratori.
Torniamo all’esempio della previdenza integrativa; che cosa accade al firmatario del contratto se, per qualsiasi ragione, non può o non vuole proseguire nei suoi versamenti?
Semplice, il cliente comunica di volere recedere dal contratto, ed ha la facoltà di richiedere indietro quanto versato; certamente rimettendoci qualcosa in penali varie, ma ricevendo comunque indietro buona parte dei suoi soldi.
Nella peggiore delle ipotesi, cioè in caso si voglia recedere dal contratto prima di avere versato per un minimo di anni, si possono perdere i soldi versati fino ad allora.
Cosa accade, invece, se non si versano i soldi che l’INPS pretende dai cittadini?
Si entra in una spirale di cartelle esattoriali, ingiunzioni, pignoramenti e quant’altro, nella speranza di estorcere ai lavoratori quanto richiesto, naturalmente con abbondanza di sanzioni, interessi e more che non di rado triplicano gli importi originari!
Ora, vi sembra normale che un ente nato per tutelare la previdenza sociale dei lavoratori si trasformi un uno sbirro pronto a pignorarti la casa e l’automobile se rifiuti di pagare i contributi per la pensione?
vignetta-Inps
Il comportamento logico sarebbe quello di dire: “Non paghi? Bene, non avrai la pensione”. Invece parte la caccia al poveraccio, con la gentile partecipazione di Equitalia, dei suoi eredi e di ufficiali giudiziari assortiti!
E non credete di saldare il contro crepando! Già, perché i “debiti” con INPS, INAIL ed altri enti criminali non si estinguono con la morte, ma vengono girati agli eredi.
Dico la cosa con estrema certezza, dato che quando morì prematuramente mio padre, nel 1997, mi ritrovai pochi giorni dopo la sepoltura uno di questi maiali stipendiati dallo Stato davanti alla porta di casa, il quale pretendeva da me, in quanto erede, il saldo di “debiti” fiscali avuti da mio padre!
Ovviamente congedai con una pedata l’usuraio itinerante e mi recai a sottoscrivere un atto di rinuncia all’eredità!
Io stesso sono in una situazione analoga, in quanto mi sono sempre rifiutato di pagare bollettini INPS non dovuti, dopo un’iscrizione d’ufficio come “artigiano”, cioè una professione che non avevo mai svolto, essendo stato un dipendente mascherato da lavoratore autonomo con partita IVA, grazie ai delinquenti per i quali lavoravo all’epoca.
Evidentemente ai banditi dell’INPS non pareva conveniente attendere l’arrivo di nuovi extracomunitari, preferendo in questo caso torchiare dei poveracci costretti a prendere una partita IVA per non vedersi licenziare!
Proprio di recente gli indegni usurai, con evidente dose di ottimismo ed ironia, mi hanno inviato una serie di cartelle, ammontanti, con interessi e multe varie, a 34 mila euro!
Peccato per loro, il sottoscritto è stato abbastanza astuto da non avere beni intestati, né tanto meno dal mettere al mondo figli che avrebbero potuto diventare “debitori” di queste canaglie appena venuti al mondo.

Carlo Gariglio

mercoledì 18 ottobre 2017

Le partite IVA: ecco i nuovi poveri



L’Italia è pessima per tante cose, ma soprattutto per una, in particolare: aprire una partita IVA, una azienda o una attività nel Nostro Paese dovrebbe essere qualcosa da medaglia al valore. 

È la CGIA di Mestre a dipingere un quadro impietoso della situazione: le partite IVA sono i nuovi poveri. La crisi economica ha colpito più loro che non pensionati e dipendenti statali: una partita IVA su quattro è sotto la soglia di povertà, mentre per i dipendenti statali il rischio è di uno su cinque. 

Imprenditori, artigiani, liberi professionisti, lavoratori in proprio, padroncini, piccole attività: sono loro che hanno pagato, più di tutti gli altri, gli effetti devastanti della crisi, ancor più forti nel Mezzogiorno che al nord. Mentre quello dei lavoratori dipendenti è rimasto pressoché stabile (-0,3%), negli ultimi cinque anni il reddito di chi lavora in proprio è diminuito di 6.500 euro annui. Un dato ancora più allarmante se pensiamo che, mentre un lavoratore dipendente, in caso di licenziamento o di cessazione del suo rapporto di lavoro, può godere di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, contributo NASPI, e via dicendo) un libero professionista o un imprenditore, quando cessano la loro attività, non dispongono di alcun aiuto: possono solo cercare di riciclarsi, magari trovando un nuovo impiego.

Con una pressione fiscale reale che si aggira sul 70% (ciò significa che, su 100 euro guadagnati, 70 spettano, in un modo o nell’altro, allo Stato, e con gli altri 30 si devono far quadrare i conti, pagare gli stipendi, reperire il materiale per l’attività, e via dicendo) lo Stato non aiuta sicuramente. 

Sempre più la libera impresa e i valori umani che questa Nazione può vantare vengono visti come limoni da spremere fino all’osso. Chi ha una azienda sa bene di cosa parlo. E non sono solo le tasse – già di per se altissime – a costituire un problema, ma anche tutto ciò che si è costretti a pagare in più, spesso imposte indirette. 

Vendere un mezzo aziendale, ad esempio, è una tragedia: il passaggio di proprietà può superare anche il migliaio di euro. Quale operazione tecnica da parte dell’operatore che non sia la pura e semplice modifica del nome all’interno del sistema informatizzato può giustificare una spesa del genere?

Altro esempio. Cambiare la sede legale di una azienda è un calvario: se viene spostata all’interno dello stesso Comune basta qualche centinaio di euro, altrimenti costa più di 1.200 euro, e non possiamo farlo da soli, ma dobbiamo avvalerci di un notaio che ovviamente, per questo disturbo, dovrà essere retribuito. Di nuovo: cosa giustifica un tale importo? Non sarebbe più semplice una procedura informatizzata con la quale l’Azienda possa autonomamente modificare, magari all’interno del sito della Camera di Commercio della provincia competente, la propria sede legale?

Voliamo più in basso. Parliamo di una visura aziendale, ovvero quel documento che è un po’ la carta di identità dell’attività (sede legale, volume d’affari, oggetto sociale, media di dipendenti), e che può servire per tantissime operazioni, come richiedere una fornitura di materiale, partecipare a delle procedure pubbliche, partecipare a dei bandi di gara, ottenere prestiti e finanziamenti dalla propria Banca. Ogni sei mesi la visura catastale “scade”: anche se nella azienda non vi è stata alcuna sostanziale modifica, anzi, anche se tutto è rimasto esattamente identico a quando la visura è stata prodotta (non abbiamo assunto nuovi dipendenti, non abbiamo cambiato sede legale, non abbiamo modificato in alcun modo lo Statuto o toccato l’oggetto sociale), non si sa perché ma la visura deve essere riprodotta da capo. Essenzialmente possiamo fare ciò in due modi: recandoci all’ufficio della Camera di Commercio competente, fare file interminabili e infine renderci conto che dalle otto e mezza di mattina sono passate due o tre ore; oppure, grazie al Cielo, collegarci ad uno dei tanti siti che offrono questo servizio quasi in tempo reale, sperare di non incappare in un sito-truffa, e farci rilasciare la nostra cara visura. In ogni caso la cosa non ci costerà meno di una ventina di euro. Una cosa che mi sono sempre chiesto: qualcuno può spiegarmi perché la visura perda di valore dopo sei mesi? 

E dello Spesometro, ne vogliamo parlare? Perfino i commercialisti più scafati l’hanno giudicata, oltre ad una incredibile perdita di tempo e di soldi, di una complessità tale che bisogna essere dei pirati informatici per destreggiarsi all’interno del sito dell’Agenzia delle Entrate dove, di fatto, si tratta di inserire nuovamente tutta la propria contabilità. Non sarebbe stato meglio chiedere un rendiconto fiscale alle aziende? Ogni programma di contabilità, anche il più misero, può produrre in qualche secondo la documentazione IVA, i flussi di cassa, entrate e uscite dell’azienda. Un normalissimo file in .pdf che si invia all’Amministrazione competente in caso di controllo. Invece no. Devi autenticarti sul sito dell’Agenzia delle Entrate – e già questa è una impresa- inserire nuovamente dati su dati che hai già inserito mentre preparavi la tua contabilità interna (a seconda del volume d’affari della tua azienda sono centinaia e centinaia di dati), salvare i dati con un codice alfanumerico che conosci dopo che ti leggi tutta la manualistica, inviare il file e sperare in Dio che il sistema ti permetta di monitorare i files che hai trasmesso, perché altrimenti devi andare nuovamente all’Agenzia delle Entrate, perdendo un’altra mattinata, per attivare una procedura particolare che “forzi” il tuo sistema a vedere i files che tu stesso gli hai dato. Qualcuno dirà che si potrebbe affidare il tutto ad un commercialista, magari più bravo ed esperto di noi, per semplificare la situazione. Vero, ma solo a metà. Innanzitutto è si caldamente consigliato avere un commercialista esterno, ma non obbligatorio: potrei tranquillamente gestire la mia contabilità mediante il mio gruppo di lavoro aziendale; in secondo luogo sono gli stessi commercialisti che, nella redazione dello Spesometro, hanno espresso le lamentele più sentite riguardo la macchinosità e la difficoltà dell’operazione. E se lo dicono loro… 

Si potrebbero fare decine e decine di esempi, ma i comuni denominatori, in tutti, sarebbero essenzialmente due: la perdita di tempo e la perdita di soldi di tutta una serie di attività burocratiche che portano via tempo e denaro alla tua attività, costringendoti ad inseguire più che a programmare, ad improvvisare più che a decidere.

Quasi come se lo Stato vedesse le attività imprenditoriali come dei nemici e non delle risorse per la Nazione. I nostri governanti le risorse le vedono nei fancazzisti africani che sbarcano, ogni giorno, a centinaia sulle nostre coste.

Ma questa è un’altra Storia.

sabato 4 febbraio 2017

Michele Bianchi: il lavoro come suprema etica nazionale

Roma, 3 feb – Se ci trovassimo a percorrere il nostro Bel Paese, per quel tratto calabrese di litorale tirrenico della provincia di Cosenza, attenti con lo sguardo e la mente a ricercare gli inaspettati gioielli che quella terra conserva, persino sin troppo “gelosamente”, saremo di certo richiamati da un oggetto. Sulla sommità di una collina che sovrasta la costa, vedremo svettare maestosa e salda una colonna. Sappiate sin da ora che quella colonna rappresenta un evento più unico che raro. È la tomba monumentale di un fascista. È infatti il sacrario in cui riposano le spoglie mortali di Michele Bianchi, costruito dai suoi compaesani di Belmonte Calabro. Michele Bianchi morì a quarantasette anni non ancora compiuti, proprio in questo giorno, il 3 Febbraio 1930, nell’anno VIII° di quella rivoluzione in cui egli credette fermamente sin dall’inizio e che contribuì a rendere concreta, con il suo pensiero e la sua prassi. Socialista appassionato, sindacalista fervente, interventista convinto, pensatore brillante, combattente coscienzioso, sansepolcrista consapevole, politico integerrimo, quadrumviro dottrinale, legislatore efficiente, ministro dotato. Pur nella stringente sintesi delle tappe ideali della sua esistenza, colpiscono due questioni, per certi versi eguali e contrarie. La sua importanza niente affatto secondaria nelle vicende di quegli anni e di questi uomini, che dovevano fornire e formare l’ossatura umana del Fascismo. E, di contro, lo sconsolante oblio in cui è immerso, attitudine che accomuna, salvo eccezioni, tanto i suoi detrattori quanto i suoi estimatori. Per la serie “Michele Bianchi chi?”.
Senza soffermarci troppo in un opera di investigazione sui motivi che hanno portato a questo atteggiamento, che sembra conformarsi alla massima del “marciare divisi per colpire uniti”, riteniamo doveroso riportare alla luce un uomo che fu uno più lucidi cervelli politici italiani del sindacalismo prima e del fascismo poi. Non per sterile vezzo di conoscenza, e nemmeno per semplice ricordo di figura dimenticata. Ma perché il valore di quest’uomo, nella sua elaborazione ideale come nei suoi atti pratici, appare tanto tremendamente attuale, che plausibilmente lo dovremo piangere più noi che i suoi contemporanei. Un uomo che visse la sua intera esistenza con un etica rigorosa, un impegno sindacale e politico intransigente, ed un idea forte che rappresentava il faro della sua azione: il lavoro. Il lavoro come artefice della coscienza umana. Il lavoro come luogo della socialità degli individui. Il lavoro come collante della Nazione. Contrariamente ai suoi detrattori, provenienti dal mondo politico intellettuale “antifascista”, che vedono nel pensiero e nelle opere del Bianchi solo una “rozza involuzione”, aggravata oltretutto dal supremo marchio di infamia del tradimento, cosa che non potrebbe essere altrimenti viste le premesse di cui sopra, ciò che a noi colpisce invece è la ferrea coerenza di un pensiero che, nonostante si estrinsechi in tappe cronologicamente successive, rimane graniticamente fedele ad alcuni principi ed idee cardine. Detto in soldoni, mentre per gli antifascisti Bianchi è una persona negativa in toto, o al massimo un rivoluzionario positivo che poi, non si capisce per quale ragione, perde sanità mentale e diventa comunque un cattivone, per noi rimane non solo rivoluzionario per tutta l’esistenza, ma coerente fino in fondo. Misteri della storia, o meglio della storiografia.
Michele Bianchi, chiamato “Michelino” per via della sua corporatura esile, dopo la militanza giovanile socialista ed il suo avvicinamento al sindacalismo rivoluzionario, fece parte, assieme a Filippo Corridoni (di cui abbiamo parlato) e Benito Mussolini, del gruppo degli “interventisti”, che nel 1914-1915 premevano per l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Come Corridoni, anche lui maturò ed elaborò il concetto di lavoro e nazione come fattori inscindibili. Già nel primo dopoguerra la sua idea era che il sindacalismo fosse “scuola di aristocrazia, nel pensiero e nell’azione”. E nella celebre riunione di piazza San Sepolcro del 1919, in cui furono ufficialmente fondati i Fasci di Combattimento, non esitò ad esprimersi in termini di rigoroso realismo: “È facile incontrare la simpatia delle masse con grandi promesse. Bisogna avere invece il coraggio di dire che se le conquiste economiche del proletariato non saranno affondate nel granito di una prosperità industriale e commerciale, esse non potranno essere che effimere. […]. Un movimento che intendesse consegnare a delle folle ancora incapaci le redini della società, sarebbe un movimento eminentemente reazionario. La rivoluzione, per essere degna di chiamarsi con questo nome, deve avere come fattori coscienti uomini di qualità superiori a quelle possedute dagli elementi del regime che vuole abbattere. Ora la missione nostra non è quella di distruggere: è quella di creare”.
Nella direzione del movimento fascista ante marcia occupò un posto niente affatto secondario, sia come segretario politico del Fascio di Milano, sia rivelando la sua “ars costruens” su tre direttrici: quella educativa, con la scuola di propaganda fascista; quella organizzativa, con la creazione del Partito Nazionale Fascista; e quella produttivistica, con la realizzazione dei sindacati fascisti. Nel primo ambito, figura la creazione della scuola di propaganda fascista nel 1921, in cui Bianchi espose la sua idea relativa alla categoria metapolitica di Nazione: “La nazione è, prima di ogni altra cosa, un’unità etnica. Quando nell’unità etnica si inserisce l’unità storica politica, ed è questo il processo normale che presto o tardi non manca di verificarsi, la realtà nazionale risulta nella sua compiutezza”. Lo stesso Bianchi fu tra i promotori della trasformazione del movimento in partito, che doveva essere “ingranaggio” con cui sostituire i meccanismi del vecchio sistema di potere. Ne divenne anzi segretario politico nel famoso congresso di Roma del ‘21, promuovendone oltretutto la sua completa militarizzazione in occasione del cosiddetto “sciopero legalitario” del ‘22, non disdegnando, ma anzi, la prospettiva militare di presa del potere. Sempre nel 1922, terzo braccio della sua opera, contribuì a fissare le linee guida della neonata Confederazione Generale dei Sindacati Nazionali, in cui ritroviamo il binomio lavoro-nazione enunciato, tra i punti, in questo modo: “1. Il lavoro costituisce il sovrano titolo che legittima la piena e utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale. 2. Il lavoro è la risultante degli sforzi svolti armonicamente a creare, a perfezionare, ad accrescere quanto forma benessere materiale, morale, spirituale dell’uomo. […]. 4. la Nazione – intesa come sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della stirpe – sopra gli individui, lo categorie e le classi”. In queste citate parole non può non riecheggiare la stessa elaborazione che ritroveremo compiutamente presentata nella Carta del Lavoro del 1927, sin da subito considerata come una della più alte realizzazioni del regime fascista, tanto da venire addirittura preposta alla pubblicazione del codice civile del 1942 (ne abbiamo parlato qui).
E qui ci sia permessa una divagazione sul tema. Questo caposaldo legislativo è stato sistematicamente ignorato o totalmente depotenziato da gran parte della storiografia successiva, che uno come l’omnicitato Renzo De Felice scrisse che “nulla insomma vi era di “rivoluzionario” nella Carta del lavoro”. In primis, se un documento del genere aveva poca più importanza di un verbale di condominio, come mai, ad esempio, venne abolito già nel novembre ’44 dal regno del sud sotto il governo Bonomi e la reggenza di Umberto di Piemonte? Durante la guerra era davvero una priorità? In secundis, e qui ritorna la tremenda attualità di Michele Bianchi o dalla Carta del ‘27, in quel periodo in Italia si metteva nero su bianco il lavoro come dovere sociale, il doveroso intervento dello stato in economia, e concetti davvero basilari quali il periodo di prova comunque pagato. Mentre nel 2017 sempre nella stessa Italia, gli argomenti all’ordine del giorno sono “competitività”, leggi: abbassare stipendi e tutele; “mercato globale”, leggi: delocalizzazione e sostituzione di popoli (o esercito industriale di riserva per far capire il concetto ai “marxiani”); “difesa dell’euro”, leggi: trionfo dell’economicismo liberista; “l’economia della promessa”, leggi: stage gratuiti. Tutto ciò risulta ancora più rivoluzionario. Come diceva il sommo poeta: “Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria”. Ma questa situazione dall’amaro sapore orwelliano, il nostro Michelino non ebbe il piacere di viverla, poiché era impegnato in un’altra era, in cui c’era da organizzare la Marcia su Roma, il quale lo vide calzare le vesti del quadrumviro, organizzare la complessa macchina fascista a livello legale, e predisporre le manovre politico militari per una presa di forza del potere. A tal proposito è indicativa la sua lapidaria sentenza “a Napoli piove, che ci stiamo a fare?” pronunciata durante il congresso di Napoli dell’ottobre ‘22, quando oramai la mobilitazione e la marcia erano già state decise.
Nominato segretario generale al ministero dell’Interno nel primo governo Mussolini, rivelò in queste vesti le sue doti legislative e il suo fanatismo dottrinale. Infatti se da un lato contribuì a stilare la nuova legge elettorale per le elezioni del ‘23, passata alla storia come “legge Acerbo”, ed in cui egli stesso sarà il politico fascista che avrà più preferenze secondo solo allo stesso Mussolini, si impegnò per la difesa dell’ortodossia fascista contro i pericoli di adagiamento e compromessi che coinvolsero persino alcune frange del fascismo. Anzi durante la crisi del ’24, seguita alla morte del deputato socialista Matteotti, venne visto come uno degli “intransigenti”, di idee ed attitudini diverse rispetto ad un Roberto Farinacci, ma non per questo meno rigoroso. Accanto a ciò, e rappresenta un ulteriore realizzazione dei suoi propositi, si prodigò per l’elevazione dell’Italia meridionale ed in particolare della sua Calabria.
Durante gli anni della sua permanenza come sottosegretario ai lavori pubblici, dal ’25 al ’28, e poi come ministro, dal ’29 alla morte, fedele al suo obiettivo che una vera unione nazionale dovesse necessariamente passare attraverso la costruzione di un “logos” comune in termini di civiltà, costruzione che doveva essere tanto spirituale quanto materiale, si fece promotore di un intensa opera di sviluppo di quella regione, fatto peraltro di cui anche i detrattori non hanno potuto esimersi di far notare. Ripagando il suo “Fascismo di pietra” della stessa moneta, alla sua dipartita terrena, i compaesani vollero perciò dedicargli il monumento funebre di cui abbiamo scritto. Ed è proprio quella colonna che, come una volta fungeva anche da faro, continua idealmente ad esortarci sul significato che lavoro e nazione seguitano a rappresentare per la vita di un popolo.

Lorenzo Mosca
Fonte:  http://www.ilprimatonazionale.it/approfondimenti/michele-bianchi-il-lavoro-come-suprema-etica-nazionale-56840/

venerdì 3 febbraio 2017

Economia: mala tempora currunt



Nuovi tagli alla spesa pubblica; nessuna diminuzione delle tasse (come le odiose accise sul carburante, che in meno di una decina d’anni sono aumentate del 50%); aumento delle tasse esistenti (come sigarette e carburante); lotta all’evasione. 

L’Europa chiama, l’Italia di Gentiloni e Padoan risponde. Il leit motiv è sempre quello del “ce lo chiede l’Europa”, unito al rispetto dei parametri di Bruxelles che azzoppano la crescita così tanto a lungo desiderata e sempre rimandata.

Insomma, sul fronte fiscale pare proprio che l’anno in corso sarà di lacrime e sangue: avremo servizi peggiori e che contemporaneamente pagheremo di più, e saremo ulteriormente vessati da uno Stato che definire rapace e vampiresco con i propri cittadini è dir poco.

Come se non bastasse, le notizie dell’ISTAT sul fronte dell’occupazione sono tutt’altro che incoraggianti, e certificano il totale fallimento del Jobs Act con cui Renzi si è giocato una parte della sua permanenza al governo. Si registra un sensibile peggioramento della situazione lavorativa italiana, con un aumento della disoccupazione (arrivata al 12%) e quella giovanile che tocca e supera nuovamente il 40%; stabili gli occupati, fermi al 57,3%.

L’unica cosa valida del Jobs Act, vale a dire gli incentivi per le imprese che assumevano o che acquistavano macchinari nuovi per le proprie attività, è ormai venuta meno: i fondi sono finiti, e pertanto la situazione è ritornata ai livelli di partenza. 

Se è vero che le cattive notizie non vengono mai sole, ci pensa il Centro Studi Unimpresa a farci dormire ulteriormente sonni ben poco tranquilli: 9,3 milioni di persone, in Italia, sono a rischio povertà. All’interno troviamo anche i lavoratori occupati ma precari, il cui lavoro, cioè, non garantisce loro un adeguato sostentamento e la possibilità di far fronte alle incombenze economiche più elementari. 

Ci aspettanto tempi brutti.