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venerdì 23 gennaio 2009

Gaza: dopo la furia, la desolazione


Dopo più di venti giorni di devastazioni, bombardamenti, deliberato assassinio di civili (inclusi gli assistenti umanitari dell’ONU), la distruzione di tutte le infrastrutture sistematiche della Striscia di Gaza, Israele se ne va. Lascia dietro di se più di 1300 morti e 6000 feriti (più di 300 sono bambini), la stragrande maggioranza essenzialmente civili; due miliardi di dollari di danni (lo stesso Ban Ki Moon si è detto stupefatto), risultato del bombardamento sistematico di più di 22.000 edifici (molti dei quali con il contrassegno delle Nazioni Unite, della Croce Rossa e di altre organizzazioni internazionali e non schierate nel conflitto).
Se Israele fosse un uomo in carne ed ossa parleremmo senza timore di una personalità paranoica, estremamente aggressiva, sadica, arrogante, particolarmente violenta e desiderosa di far del male al prossimo per placare la sua costante sete di vendetta e di rancore: chiederemmo a gran voce che venga fermata seduta stante. Invece abbiamo assistito, impotenti, alle scandalose capriole di un’opinione pubblica che ha fatto di tutto per giustificare il massacro di innocenti da parte dell’entità sionista; ai nostri politici i quali, mentre Israele inceneriva i palestinesi, si mostravano alle telecamere accanto a striscioni con su scritto “Con Israele per la pace”; ai Fini, ai Panebianco, ai Cicchitto che si prodigavano in distinguo tra i massacri di civili e la necessità di Israele di difendersi: nessun accenno alle leggi internazionali che lo Stato ebraico, come Stato occupante, deve rispettare nei confronti dei civili e della popolazione soggetta al suo controllo; nessun accenno al diritto, sancito dagli ordinamenti internazionali, secondo il quale un popolo che si trova sotto occupazione militare ha la facoltà di difendersi come può, inclusa l’opzione militare.
Abbiamo dovuto assistere, impotenti, alle inutili e provocatorie chiacchere relative al programma di Michele Santoro, Annozero, accusato di essere eccessivamente di parte. Il perché è presto detto: guardando la situazione da un punto di vista obiettivo, non c’è dubbio che Israele sia l’aggressore e i Palestinesi gli aggrediti; non c’è dubbio che, mentre Israele ha avuto qualche morto, in diversi mesi, a causa dei petardi kassam, i palestinesi hanno pagato con più di 1300 morti. Mostrando obbiettivamente la situazione, non si poteva e non si può, per ragioni di cose, sbilanciarsi da una parte che non sia quella della gente della Palestina. Ma evidentemente la nostra destra di fascisti all’amatriciana e non ha bisogno di vedersi piovere qualche bomba atomica israeliana sulla testa per cambiare idea.
Al sottoscritto è sembrato, per alcuni giorni, di vivere in un mondo alla rovescia, dove la maggior parte delle Nazioni (a parte qualche lodevole eccezione come l’Iran o il Venezuela) solidarizzavano con l’aggressore e criminalizzavano l’aggredito. E ho pensato che cosa direbbe la comunità internazionale se una Nazione come l’Italia facesse quello che ha fatto lo Stato sionista in tutti questi decenni: impossessarsi con la forza militare di un territorio, scacciando via gli abitanti con eccidi di massa ed insediamenti illegali, fino a rinchiudere la popolazione all’interno di un piccolo pezzettino di terra, controllandone i valichi di entrata e di uscita, lo spazio aereo, l’economia, e bombardandoli di tanto in tanto. Il tutto, beninteso, infischiandosene altamente degli appelli della comunità internazionale e di tutte le risoluzioni di emergenza varate dall’ONU per chiedere all’Italia il rispetto dei diritti della popolazione sottomessa. I politici della Spagna, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, si sarebbero comportati con tutti i distinguo che hanno avuto i nostri rappresentanti (sic!) italiani? Si, l’Italia li starà pure sterminando, però anche quelli lì a furia di lanciare razzi se la sono cercata! Io direi di no. Avremmo subito sanzioni internazionali, embarghi economici, minacce di guerra; avremmo sentito l’odio di tutto il mondo contro di noi, che sodomizzavamo una popolazione inerme ed indifesa con arroganza e sadismo.
Bisogna chiedersi come mai, nonostante la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale sia contraria alla guerra, Israele goda di un così forte sostegno diplomatico in ambito internazionale: perché i governi, in particolare quelli europei, sono disposti a schierarsi sempre e comunque in difesa di Israele, anche se questo li espone, come prevedibile ed auspicabile, al biasimo dei loro cittadini? Perché basta che in Italia una trasmissione, Annozero nella fattispecie, presenti i dati e i fatti con obbiettività e dando voce alla gente di Gaza, che subito si urla allo scandalo ed alla faziosità? (Ricordo, tra le tante persone che hanno parlato dalla Striscia, quella ragazza che ha detto in modo chiaro ed inequivocabile che Hamas è una forza democratica che è stata chiamata a governare nel 2006, in elezioni considerate libere e democratiche dagli osservatori internazionali, e che gli USA e Israele le hanno impedito in tutti i modi di governare uccidendo i ministri, bombardando le sedi governative, chiudendo e aprendo i valichi a piacimento). Perché nelle nostre TV e nei nostri giornali abbiamo sentito solo dei distinguo (Israele ha il diritto di difendersi; Hamas è terrorista perché lancia i pet… pardon, i razzi; Hamas non sa governare, etc.) e non una – che fosse una – presa di posizione netta contro la guerra e contro lo sterminio sistematico della gente di Gaza?
Bisognerebbe chiedersi le ragioni a causa delle quali Israele ha condotto questa guerra, se di guerra e non di eccidio di massa si deve parlare. Avranno avuto qualche peso, come dice qualcuno, le elezioni che si terranno a breve in Israele? Io credo di si. L’opinione pubblica israeliana è, sostanzialmente, assai favorevole alla guerra ed alla lotta contro i palestinesi, a prescindere da chi rappresenti questi ultimi. Non dimentichiamoci che diversi esponenti del governo di Israele sono stati, in un lontano passato, dei terroristi; e che molti sono dei militari; non dimentichiamoci che il partito del fu Sharon, il Likud (l’estrema destra israeliana), ebbe un aumento vertiginoso di consensi in seguito agli eccidi di Shabra e Shatila, che Sharon autorizzò consapevolmente.
Avrà avuto una qualche importanza il fatto che l’attacco alla Striscia è stato condotto proprio nelle settimane critiche degli Stati Uniti, quelle in cui, non essendosi ancora insediato il nuovo Presidente, e non essendo ancora definitivamente andato via il penultimo, si crea un vero e proprio vuoto di potere? Forse che Barack Obama, forte dell’appoggio e dell’entusiasmo popolare ed internazionale, avrebbe potuto fare qualcosa di importante per fermare o moderare Israele? Anche. Ma, ammesso e non concesso che questa possa essere una spiegazione, l’armata di guerrafondai pro-Israele che il neo Presidente ha imbarcato nel suo gruppo dirigente dovrebbe rassicurare gli israeliani.
Le ragioni di questa guerra possono essere tante, ma una domanda bisogna farsela. Che le operazioni militari che Israele ha condotto nella Striscia siano state dirette espressamente contro i civili è un qualcosa che chiunque può appurare da se; la stessa Hamas parla di vittoria, in quanto ha perso “solo” una quarantina di uomini. I quali, se paragonati alle ben più grandi perdite civili, sono poca cosa. In questa rabbia distruttrice, come abbiamo potuto appurare, le Forze Israeliane non si sono fermate neanche davanti ai simboli della Croce Rossa o delle Nazioni Unite. Il Ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, ha candidamente ammesso di avere la coscienza pulita e di considerare le perdite civili come un “effetto collaterale”. La domanda è: da che cosa deriva questa totale mancanza di empatia, anche umana, verso gli innocenti che sono morti nella Striscia? Come si fa a restare così indifferenti, così lucidi, così freddi? Una delle tante risposte può forse essere che i bambini palestinesi non sono visti come bambini, bensì come goim, animali parlanti. Le donne palestinesi che piangono e che urlano “Mi è rimasto solo Allah!” non appaiono più come donne, ma come puttane goim che dovranno servire il popolo eletto nel mondo che verrà. Non è una esagerazione: basta dare un’occhiata al Talmud, che viene insegnato a tutti i bambini israeliani fin dalla più tenera età, per leggere le più scandalose bestemmie contro i cristiani e i non ebrei. Del resto, i bambini israeliani imparano subito, come potete vedere nelle foto.

Come si può combattere tutto questo odio e questo livore che Israele sente, ciclicamente, di dover sfogare in qualche modo?

lunedì 22 dicembre 2008

Anche i ricchi (ebrei) piangono


Queste ultime settimane hanno visto la definitiva caduta del sogno del libero mercato che il mondialismo, con le sue balle sul capitalismo come soluzione di tutti i mali, sullo Stato che non ha bisogno di intervenire nell’economia perché il mercato si autoregola da se, ha alimentato per decenni; è un gigantesco castello di carte che crolla e travolge tutti coloro che sono sotto. Nella totale disfatta fa piacere vedere che anche coloro che hanno lucrato sulle spalle dei poveracci con parcelle milionarie, accumulando nei loro conti in banca gran parte dell’intera ricchezza mondiale, piagnucolano sulla grande crisi. Beninteso, questi signori non hanno proferito una parola quando milioni di americani si sono visti pignorare la casa e sono stati costretti ad andare nelle roulottes con le scatolette di Kitekat; ma se a fare i conti con la crisi finanziaria sono coloro che appartengono al popolo eletto da Dio, allora significa che siamo veramente arrivati al capolinea.
La Bernard Madoff Investments and Securites, la società del ricco speculatore ebreo Madoff che gestiva soldi di molte e grandissime compagnie finanziarie, oltre alle associazioni, imprese e banche del mondo che conta dell’ebraismo finanziario, ha truffato tutti i suoi clienti con il famosissimo “metodo Ponzi”, quello che sperimentò tanto tempo fa il nostro connazionale. In sintesi Madoff ha convinto gran parte dell’ebraismo finanziario americano e mondiale ad affidare alle sue società i risparmi degli stessi garantendo, in qualunque condizione di mercato, utili non inferiori all’8 per cento. Una vera e propria manna dal cielo per gli speculatori finanziari, che però finivano per essere truffati, loro malgrado, all’interno del metodo Ponzi: si pagano gli investitori “vecchi” con il denaro dei nuovi azionisti che “affidano” i loro risparmi, e questo sistema si ricicla eternamente; in questo modo i nuovi investitori pagano i vecchi in un circolo vizioso che non produce ricchezza, ma solo circolazione di capitale che si accumula in un sistema piramidale truffaldino. Sono incorsi in questa truffa clamorosa nomi del calibro della Yeshiva University di New York (università per soli ebrei: il razzismo biologico spetta solo agli eletti, mentre i goym devono eternamente piangere e chinare il capo per tragedie mai accadute), Frank lautenberg (senatore), Fred Wilpon (proprietario della squadra dei Mets), Mortimer Zuckermann (plutocrate dell’edilizia), la Fondazione Elie Wiesel (che delizia!), Steven Spielberg, la Hadassah (organizzazione di femministe che sostengono Israele), l’American Jewish Congress (zoccolo duro della lobby sionista americana) e così via.
Si sa, chiunque abbia letto il Talmud sa bene che spillare soldi ai goym, fino a ridurli dentro le roulottes, va sempre bene per il popolo eletto; ma che il popolo eletto venga truffato da uno di loro, al quale avevano affidato tutti i loro risparmi anche e specialmente perché ebreo (“Uno di noi!”), questo non si riesce proprio a mandare giù.
Che cosa aspettarci adesso? Come minimo l’istituzione di un secondo giorno della memoria, per ricordare questa seconda grave tragedia che colpisce il popolo ebraico; la proiezione, su tutti i nostri teleschermi, di ebrei che piangendo ci raccontano quanto è stato terribile perdere tutti i propri risparmi e quanto sia stato doloroso il loro reinserimento nella vita sociale; nuovi eroi e nuovi martiri da santificare e glorificare, i Perlaska di oggi, nei film che si dedicheranno all’avvenimento. Consigliamo un buon titolo a Spielberg: “Madoff’s List”. E già me li vedo, i nostri politici, tutti ad inchinarsi con la kippà sulla testa a ripetere: “Mai più… mai più…”

sabato 30 agosto 2008

Estremisti con la kippà

http://80.241.231.25/ucei/PDF/2008/2008-08-21/2008082110423035.pdf
http://80.241.231.25/ucei/PDF/2008/2008-08-21/2008082110423203.pdf

Se c’è qualcuno che crede ancora che l’Italia sia un paese democratico, e che coloro che parlano di regie orchestrate a tavolino da parte di poteri forti (sempre gli stessi da un paio di secoli a questa parte) siano da catalogare sic et simpliciter come “complottisti”, dovrebbe leggersi gli articoli che, in collegamento .pdf, vengono riportati immediatamente qui sopra.
Gli articoli de La Nazione e de Il Giorno si riferiscono alle (poche) polemiche, ovviamente taciute da tutti i media, che sono state innescate in seguito al fallito congresso-dibattito della “Ultima spiaggia” di Capalbio all’insegna della rassegna “Uno scrittore, un’estate”. Qui, a presentare la seconda edizione del suo libro “Pasque di sangue”, si sarebbe dovuto presentare Ariel Toaff, colui che ha affrontato lo spinosissimo tema – secolarmente diffuso in tutta Europa nei secoli precedenti – degli omicidi rituali all’interno dell’ebraismo.
Inutile dire che il convegno - che secondo le parole dello stesso Toaff doveva riunire, in un interessante faccia a faccia, lo stesso storico con altre importanti personalità legate al mondo dell’ebraismo - non ha avuto luogo. La spiegazione di questo è stata data, con una facilità disarmante, dall’organizzatore dell’evento, Gianni Aringoli: “Ho avuto fortissime pressioni dalla Comunità di Roma per non organizzare il dibattito con Toaff a Capalbio. Mi hanno detto che intendono cancellare lo storico con il silenzio”.
In queste poche parole Aringoli, probabilmente inconsapevolmente, ha sintetizzato magistralmente tutto il potere che ha la Comunità Ebraica di Roma – che si configura sempre più come un fortissimo gruppo di pressione politica – nel bloccare o nel tacitare tutte le voci scomode alla comune vulgata, sinteticamente liquidate come antisemitismo.
“Pasque di sangue” si inserisce in una lunga tradizione di libri contrari al potere e tacciati di antisemitismo, a cominciare dai principali testi revisionisti (di Irving, Faurisson, Mattogno, Hardwood e così via).
Ariel Toaff, ebreo e figlio del capo della Comunità Ebraica di Roma, ha una colpa indicibile: aver instillato il sospetto che il popolo ebraico, l’agnello sacrificale, l’eterno martire, possa aver raggiunto, in qualche suo piccolo e minoritario gruppuscolo fanatico e oltranzista, livelli tali di odio verso i cristiani da compiere degli atti efferati nei confronti degli stessi. E’ per questo, per non smontare il mito del popolo ebraico come eterna vittima da compatire e da comprendere e da aiutare, che la “damnatio memoriae” ebraica si è accanita contro lo storico che “va distrutto con il silenzio”.
Un solo sospetto rimane a chi scrive: se fosse accaduto che qualche gruppo di potere o politico si fosse mobilitato per impedire la divulgazione di un libro sull’olocausto, o sulla guerra di “liberazione”, o sulle stragi solitamente (e spesso erroneamente, come Sant’Anna di Stazzema) attribuite ai nazifascisti, che cosa sarebbe accaduto? Come minimo ci saremmo dovuti sorbire i rimbrotti dell’opinione pubblica sulla libertà di parola, sul valore della democrazia e del confronto. Avremo sentito, da qualunque parte, ferme condanne contro la censura. Del resto non era accaduto lo stesso anche alla Fiera del Libro di Torino? Anche lì non si era condannata la censura “da qualunque parte provenga”? Qui un intero gruppo di potere ha messo in campo tutto il suo potere e la sua influenza politica per impedire che uno storico divulgasse il suo libro. Ha fatto si che nessuno si presentasse al dibattito, riuscendo a far si che le sedie degli ospiti restassero desolatamente vuote. Ariel Toaff, e chi con lui, va “distrutto con il silenzio”. Se solo queste parole le avesse pronunciate qualcun altro, chiunque altro, sarebbero state considerate frasi di una gravità inaudita. Ariel Toaff è stato eliminato come scrittore, come storico, come intellettuale; e deve considerarsi fortunato, dato che almeno lui non è stato pestato a sangue (come Faurisson), minacciato ripetutamente di morte assieme ai suoi familiari (come Mattogno), arrestato e condannato al carcere (come Irving), o privato della sua pensione e costretto a vivere in un piccolo monolocale (come Finkelstein). Ci si chiederà perché mettere dentro lo stesso calderone Irving, Faurisson, Mattogno, gli storici revisionisti e gli ebrei come Toaff, a loro modo revisionisti anch’essi. Perché, a prescindere dai diversi campi in cui si applica lo studio e il lavoro di questi studiosi, a prescindere dalla validità o inutilità delle loro ricerche (che, come tutti i lavori, si prestano a confutazioni e contro-dimostrazioni), chi è onesto, per lo meno con se stesso, non può non riconoscere in questa costante opera di misconoscimento, di intimidazione, di delegittimazione, di calunnia, una volontà di tutto distruggere e tutto nascondere, senza neanche prendersi la briga di confutare l’opera in questione, pur di non urtare la suscettibilità di un ristretto numero di “eletti”.
Noi di Fascismo e Libertà l’abbiamo già detto mille volte, converrà ripeterlo ancora una volta. Non si tratta di acritica aderenza a tutto quello che può essere strumentalizzato in chiave politica. Non abbiamo niente a che spartire con i complottisti da tavolino, con i professionisti del dubbio, con i calunniatori di professione. Si tratta, all’interno di una società che giustamente si richiama ai valori di tolleranza, di confronto delle idee, di pluralità dell’informazione, di applicare una linea coerente che abbia un olo peso ed una sola misura. Quel che ci sarebbe piaciuto sarebbe stato un bel dibattito in cui le tesi di Ariel Toaff venivano messe in discussione e sistematicamente smontate una dopo l’altra. Ma che dibattito si può fare con chi vuole distruggere tutto con il silenzio?
Questo è estremismo allo stato puro, intolleranza endemica da parte degli stessi che qualche mese fa si indignavano per un boicottaggio (mai avvenuto) alla Fiera del Libro di Torino, e che ci mettono in guardia continuamente dal nuovo antisemitismo non appena un qualche cialtrone disegna uno swastika su un muro, coloro che lo stesso Toaff – non noi – ha bollato come “l’ebraismo al potere”.
Dobbiamo ricordarci che in questo Paese gli ebrei sono minoranza. Se è vero che le minoranze hanno dei diritti, è sacrosanto che le maggioranze ne hanno come minimo altrettanti. Certo, ben poche minoranze cancellano i libri dalla memoria collettiva e culturale di un Paese ed esprimono pubblicamente il loro desiderio di “distruggere” pubblicamente uno studioso colpevole solo di aver pubblicato un libro scomodo. Forse la parola "minoranza" c’entra poco.

domenica 20 gennaio 2008

IL ruolo dell'ebraismo nella cinematografia statunitense

Dietro il sogno americano
Il ruolo dell’ebraismo nella cinematografia statunitense
Tratto dal libro: "Dietro il sogno americano", Gianantonio Valli, ed. Barbarossa
Se da una parte tutte le maggiori case di produzione hollywoodiane sono strettamente in mani ebraiche (ma lo sono anche catapecchie cinematografiche come la Producers Releasing Company, del ragioniere Leon Fromkess), ebraiche sono anche le prime banche che finanziano l'industria filmica. L'unica, parziale eccezione è rappresentata dalla Bank of Italy, fondata nel 1904 a San Francisco da Amedeo Peter Giannini, un immigrato italiano nato nel 1870 a San Josè. Dotato di un talento e di una forza d'animo eccezionali, dopo il praticantato bancario egli ottiene i primi capitali per la sua impresa dai fratelli Herman Wolf ed lsaiah Wolf Hellman, due dei più potenti banchieri della California (il secondo è inoltre il fondatore, nel 1872, della prima sinagoga del B’nai B’rith di San Francisco).
Fattosi largo a forza in uno establishment ostile, allora dominato dai banchieri anglosassoni, l'italiano si appoggia agli ebrei, stipulando, attraverso il produttore Sol Lesser, un'alleanza con i produttori di Hollywood e con i banchieri di New York interessati allo sviluppo dell'industria cinematografica.Il propulsore di tale impegno non è però direttamente Amedeo, ma suo fratello Attilio, detto «Doc» per via di una sua laurea in medicina. Quando la Bank of Italy rileva la fallita Bowery and East River Bank di New York, è ancora Sol Lesser a consolidare la banca di Giannini attraverso il coinvolgimento di Attilio nelle attività finanziarie delle compagnie di produzione. In tal modo «Doc» diviene la prima fonte di capitale per Marcus Loew, Lewis Selznick, Florenz Ziegfeld e dozzine di altri impresari ebrei, sia teatrali che cinematografici: «una collaborazione tra outsiders», la definisce Neal Gabler.
Fondata nel 1919, la Loews Incorporated vede l'interessamento anche di altri banchieri. Come abbiamo accennato parlando della MGM, è per questo motivo che nella direzione della Loew compaiono i «gentili» W.C. Durant, dirigente della General Motors, e H. Gibson, presidente della Liberty National Bank. Un altro banchiere perno dello sviluppo dell'industria cinematografica americana è Otto Hermann Kahn. Nato nel 1867 a Mannheim dal banchiere Bernard Otto, dopo un periodo di lavoro nella filiale londinese della Deutsche Bank, nel 1893 è nominato direttore della filiale newyorkese della Speyer & Co. Tre anni più tardi egli sposa Addie Wolff, figlia di Abraham, socio nella Kuhn Loeb & Co., nella quale banca viene assunto l'anno seguente - «verosimilmente per il fatto che era stata fondata da ebrei come lui», ci informa piamente il Gabler - divenendone un'autorità.
In tempo rimarchevolmente breve, da impiegato Otto diviene alto dirigente e socio. Dal 1903 al 1917 è presidente del Consiglio di Amministrazione della Metropolitan Opera Company. Adolph Zukor, già finanziato da Pierpont Morgan, lo contatta intorno al 1919 tramite suo fratello Felix Kahn, proprietario di una delle più estese catene teatrali newyorkesi. Quando la Paramount apre la sua campagna di acquisti di teatri (nel 1921 possiede od ha costruito ben trecentotre locali di prima visione), Felix cede la sua catena, venendo cooptato nella casa e divenendone uno dei massimi dirigenti, oltre che amico intimo di Zukor. Alla fine degli anni Venti, delle quindicimila sale cinematografiche sparse sul territorio degli Stati Uniti, la Paramount ne controlla un terzo.Cosi si esprime ancora il Gabler: «Zukor aveva una forte affinità con i Kahn. I due fratelli erano apostati dal giudaismo, senza speranza di assimilazione, sebbene essi fossero in proposito più decisi che non Zukor. Otto aveva completamente rigettato il giudaismo e si era fatto episcopaliano. Essi affettavano uno stile di vita "imperiale", pensando di consolidare in tal modo il loro status di gentleman. Ed ancora credevano nelle arti come mezzo di mobilità sociale. In effetti, sembra che Otto Kalm si riferisse a Zukor quando, pochi anni più tardi notificò ad un gruppo di soggettisti e produttori che "nell'arte come in ogni cosa il popolo americano ama essere guidato in alto e in avanti", continuando poi a riferirsi "alla grande importanza ed alla potenzialità del cinema come industria, influenza sociale ed arte"».
Un gustoso aneddoto sul suo conto merita a questo punto di essere riportato. Fattosi protestante, Kahn cerca per anni di ignorare e di far ignorare la sua origine ebraica. Passando un giorno per la Quinta Strada in compagnia dell'umorista ebreo Marshall Wilder, affetto da una gobba pronunciata, egli indica al compagno la chiesa della quale è assiduo fedele, dicendogli: «Marshall, sai che una volta ero ebreo?». «Sì, Otto» - è la risposta di Wilder, evidentemente memore del fatto che olim haebreus semper haebreus - «e anch'io una volta ero gobbo». Come la Kuhn, Loeb & Co. per la Triangle (insieme a Rockefeller) e per Zukor, cosi altri banchieri ebrei finanziatori dei tycoons hollywoodiani sono S.W. Straus per Carl Laemmle e Goldman, Sachs & Co. per i fratelli Warner. Solo Williarn Fox avrebbe «osato» accordi con banchieri «gentili» non legati alla finanza ebraica, e subito l'A T & T, Halsey, Stuart & Co. ed altri finanzieri avrebbero cospirato per sottrargli il potere di controllo sulla filmografia sonora, campo nel quale Fox si trovava allora all'avanguardia e nel quale essi avevano investito considerevoli mezzi finanziari.
La crisi dell'ottobre 1929 costringe le grandi case a fare ricorso alla Chase National Bank di Rockefeller, oppure alla Atlas Corporation di Morgan, che impongono una drastica politica di organizzazione e sottomettono alla fine la produzione al loro diretto controllo. «Il 1935» - scrive Sadoul - «è l'anno in cui le conseguenze della crisi economica e della nuova "guerra dei brevetti sonori" portano ad un rafforzato controllo dei grandi gruppi finanziari sulla città del cinema. Otto Grandi regnano ormai su Hollywood; cinque "maggiori": la Paramount, la Warner, la Loew-MGM, la Fox e la RKO insieme con tre "minori": la Universal, la Columbia e la United Artists. Le cinque case maggiori totalizzano l'88 per cento del giro d'affari, sono proprietarie di 4.000 grandi cinematografi-chiave e producono l'80 per cento delle superproduzioni. Insieme con le tre case minori, monopolizzano il 95 per cento della distribuzione. Questi Otto Grandi sono consociati nella Motion Picture Producers of America (MPPA) e a loro volta sono controllati - il più spesso a due o tre mandate - dal gruppo Rockefeller o dal gruppo Morgan. Per di più, alcune di esse sono legate a W. Randolph Hearst, a Du Pont De Nemours, alla General Motors, alla General Electric e a varie grandi banche. L'alta finanza americana, direttamente proprietaria di Hollywood, sceglie attraverso i suoi fiduciari i soggetti dei film, che, prima di venir realizzati da un cineasta, debbono piacere ad una manciata di finanzieri».
I veri padroni degli oligopoli cinematografici rappresentati dalle maggiori case di produzione sono ancor oggi i grandi finanzieri di Wall Street (anch'essi nella maggior parte di ascendenza ebraica).
I maggiori trust finanziari e bancari statunitensi, le «Big Three», sono ancor oggi i gruppi Rockefeller, Morgan, e la Kuhn Loeb & Co. Come continua Georges Sadoul, l'attività dei monopoli cinematografici di Hollywood sarà da allora prevalentemente diretta da fini commerciali: «I dirigenti, che sono praticamente i delegati dell'alta finanza, stabiliscono con precisione quanto deve rendere ogni film e se il bilancio risulta in deficit tutti quelli che hanno concorso a crearlo (attori, directors e producers) si troveranno presto o tardi licenziati. I finanziatori americani padroni di Hollywood liquidano spietatamente questi executives, che sembrano tanto potenti, non appena il bilancio delle grandi case da essi dirette si rivela passivo». Tuttavia, nota sempre Sadoul, in talune circostanze i finanzieri di Wall Street autorizzano delle spese «disinteressate». Uno degli esempi più chiari si manifesta nel primo decennio del dopoguerra.
Nel 1948 la Fox è la prima a lanciare un film anticomunista, «La cortina di ferro», in appoggio alla guerra fredda. Con una contemporaneità significativa, la manovra propagandistica viene ripresa largamente dalla stampa, dalla televisione e dalle case editrici. Film senza alcuna qualità artistica, «La cortina di ferro» provoca subito, sia negli USA che all'estero, vive proteste. Il suo mancato successo commerciale non impedisce tuttavia ad Hollywood di continuare a produrre per sei o sette anni numerose pellicole anticomuniste - con eguale insuccesso. «Per la Fox, la MGM, la Warner, la RKO, la Paramount questa serie costituì certamente un deficit di molti milioni di dollari. Ma lo sforzo delle cinque majors fu disinteressato soltanto in apparenza, poiché queste grandi case erano in effetti legate anima e corpo agli interessi dei gruppi Morgan e Rockefeller, alle grandi fabbriche di armi e di forniture militari o di bombe atomiche che gravitano intorno alle ditte Kodak, Du Pont de Nemours, General Motors, General Electric, etc.».
I film anticomunisti contribuiscono a creare nell'opinione pubblica il panico della guerra fredda e pertanto a determinare commesse militari, atomiche o di altro genere, a tutto vantaggio delle grandi ditte e degli interessi che controllano anche le maggiori case cinematografiche di Hollywood. Pertanto il bilancio complessivo è largamente attivo.I legami che uniscono Hollywood al mondo del big business risultano quanto più chiari nella pittoresca figura del multimiliardario «gentile» Howard Hughes. Nato nel 1905 (e deceduto nel 1976), questo figlio di un milionario californiano si interessa ben presto, come abbiamo visto, al cinema (nel 1932 è tra l'altro produttore di Scarface). Fin dall'età di venticinque anni finanzia, e talvolta anche dirige, numerose pellicole nelle quali ha gran parte l'aviazione, attività tra l'altro a lui cara anche dal punto di vista sportivo. Mentre conquista alcuni record come aviatore, egli consolida così la fama di talune dive che godono dei suoi favori.
Nel 1948 il Nostro acquista per parecchi milioni di dollari, dal gruppo finanziario Rockefeller, la RKO. Per sette anni la società resta apparentemente in deficit, e nel 1955 Hughes la rivende ad un gruppo di grossi industriali della gomma. «Si disse allora» - scrive Sadoul - «che la RKO era stata per lui un capriccio da miliardario che accoppiava a quella aviatoria la passione per le dive. Ma il settimanale Time ricorda, il 17 ottobre 1955, da dove vengono i miliardi di Hughes. La fonte della notizia ne garantisce la veridicità, dato che questa pubblicazione americana opera nell'ambito degli interessi Morgan e, assieme alle rivelazioni, pubblica anche due pagine di pubblicità pagate da Hughes»'.
In breve, secondo la rivista, Flughes è uno dei dieci maggiori proprietari di industrie belliche americane. Nel bilancio militare degli USA la Howard Hughes Aircraft Co. (i cui stabilimenti occupano un'area di trenta ettari in California e in Arizona) incide ogni anno per duecento milioni di dollari sulla fornitura di missili teleguidati fabbricati da una delle aziende affiliate, la CSTI. Oltre a queste due società, il Nostro domina anche la Hughes Tool Co. e la TWA, la più grande compagnia aerea internazionale americana. Queste aziende impiegano complessivamente cinquantamila persone ed il loro giro d'affari annuo raggiunge i settecento milioni di dollari (tutti i dati sono ovviamente da riferire al 1955).La RKO, durante il periodo in cui è di proprietà privata di Hughes, moltiplica la produzione di film anticomunisti e di film di guerra che si svolgono in Corea od altrove, e dove l'aviazione ha un posto di primo piano. Citiamo, per tutti, The Bridges at Toko-ri, «I ponti di Toko-Ri» (1954), del «gentile» Mark Robson, prodotto da William Perlberg e George Seaton, con gli attori «gentili» William Holden e Grace Kelly.
Anche se il loro bilancio complessivo è quindi deficitario, la loro propaganda contribuisce tuttavia a determinare una situazione che viene cosi riassunta da Time: «Gli Stati Uniti avevano ormai trasmesso tutte le loro commesse di materiale antiaereo ad un unico gruppo finanziario, affidandosi completamente nelle mani di Howard Hughes, come egli stesso ebbe a dichiarare». E’ dunque difficile considerare la grande produzione filmica americana indipendentemente dai grandi gruppi industriali e finanziari che la controllano, poiché, nell'azione tendente a monopolizzare il cinema mondiale, Hollywood è collegata, da oltre mezzo secolo, agli altri grandi monopoli statunitensi (banche, petrolio, industrie aviatorie, automobilistiche, elettriche, chimiche ed atomiche).